Indira Gandhi, fra socialismo, autoritarismo e violento controllo delle nascite

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Proseguiamo la rubrica dedicata alle seguaci di Marianne occupandoci, questa settimana, di una donna che interpreta una tipologia muliebre idonea alla sociologia degli ambienti politici femministi, Indira Priyadarshini Nehru-Gandhi (Allahabad, 19 novembre 1917 – Nuova Delhi, 31 ottobre 1984).

Indira (nella foto a sinistra con il padre)  ereditò l’impegno politico del nonno Motilal Nehru[1] (1861-1931), avvocato e leader nazionalista indiano, e del padre Nehru «Pandit» Jawaharlal[2] (1889-1964), di famiglia brahmana originaria del Kashmir (da cui il titolo «Pandit» o «Panditji»). Grazie all’appoggio del padre, e poi del Mahatma Gandhi (1869-1948), Nehru ottenne importanti incarichi nel partito: fu segretario generale (1928) e presidente (1929, 1936, 1946, 1951-54). Con Gandhi stabilì un rapporto filiale, caratterizzato da una irrisolta tensione fra dissidio ideologico e devozione personale, tanto da chiamarlo Bapu (babbo).

Nel giugno 1947, mentre in Bengala, Bihar e Panjab si verificavano sanguinosi scontri fra la comunità indù e quella musulmana, annunciò l’accettazione del piano di spartizione dell’India come unica soluzione capace di assicurare all’India la pace interna e l’indipendenza. Il 15 agosto assunse la carica di primo ministro dell’India, che conservò fino alla morte; in tale occasione pronunciò un celebre discorso in cui salutava lo scoccare della fatidica ora dell’«appuntamento dell’India con il destino». Egli si ispirò al principio della laicità dello Stato e a un modello «socialistico» e «scientifico» di gestione delle risorse del Paese, incardinato sul ruolo predominante del settore pubblico all’interno di un’economia pianificata, e su una graduale industrializzazione.

L’influenza paterna fu per Indira Ghandi di assoluta importanza. Compì gli studi prima all’università Visva-Bharati, fondata dal poeta Tagore a Santiniketan (West Bengal), in seguito ad Oxford. Tornata in patria nel 1941, aderì al movimento nazionalista nelle fila dell’Indian national congress e nel 1942 sposò, con rito indù, il parsi Feroze Gandhi (1912-1960), giornalista, compagno di partito di Indira e propugnatore per l’indipendenza dell’India dagli inglesi, mutò addirittura il suo nome di nascita, cioè Feroze Jehangir Ghandy, in Feroze Gandhi, in onore del Mahatma Gandhi, che stava guidando il movimento per l’indipendenza. Da allora la figlia di Nehru si fece chiamare Indira Gandhi. I due coniugi vennero arrestati a causa della loro partecipazione alla campagna «Quit India».

Nei primi anni dopo l’indipendenza indiana (1947) affiancò il padre, allora primo ministro, ed entrò a far parte del comitato esecutivo del Congress (1955), di cui divenne presidente nel 1959. Ricoprì la carica di ministro dell’Informazione nel Governo Shastri e nel 1966 fu scelta dal direttivo del Syndicate del Congress come candidata per divenire primo ministro dell’India, preferita al leader della destra interna, Morarji Desai. Fu nominata alla morte di Shastri, il 18 gennaio 1966.

Indira Gandhi si adoperò, con lo scopo di fronteggiare l’ala conservatrice, per rilanciare la linea di riforme di stampo socialista che il padre aveva tentato di portare avanti nei primi anni di Governo. Nel 1967, per la prima volta, il Partito del Congresso subì un forte calo di consensi dovuto alla forte presenza di correnti di estrema sinistra in alcuni governi regionali. Il partito si divise in due bacini, uno conservatore e l’altro progressista.

Dopo la vittoria della destra nelle consultazioni elettorali del 1968-69, assunse posizioni fortemente socialiste e comuniste, procedendo alla nazionalizzazione delle banche, assicurandosi il consenso di socialisti e comunisti in vista delle elezioni presidenziali del 1969. Contemporaneamente si adoperò per riforma terriera, ponendo drastici limiti alla proprietà privata. Inoltre, avviò un programma di sviluppo delle armi strategiche, culminato nel primo test nucleare indiano a Pokahran in Rajasthan («Smiling Buddha», 1974).

Nel 1971, dopo una netta affermazione elettorale, decise l’intervento dell’India nella guerra che portò alla secessione del Pakistan orientale e alla nascita del Bangladesh, opponendosi a Richard Nixon, contrario all’intervento dell’India, e firmando un trattato di amicizia e cooperazione con l’Unione Sovietica di Kosygin e Brežnev, che poneva di fatto fine all’adesione dell’India al movimento dei Paesi non-allineati. Alla guida del Congress, Indira trionfò anche nella successiva campagna elettorale la vide trionfare e nell’agosto del 1971 firmò un trattato ventennale di cooperazione e amicizia con l’Unione Sovietica, tagliando i rapporti con gli Stati Uniti, che il padre aveva coltivato.

Nonostante il potere più che consolidato, le riforme di Indira non ottennero i risultati che lei aveva auspicato, in più venne a pesare il costo enorme della vittoria nella terza guerra indo-pakistana, con l’emergenza dell’imponente esodo di profughi; nonché il disastro dei raccolti negli anni 1972-73, la crisi energetica del 1973 e il contemporaneo sforzo nucleare del Paese, che nel 1974 giunse a dotarsi della bomba atomica.

Nel 1975, fu ritenuta colpevole di brogli elettorali e un tribunale la condannò all’interdizione dai pubblici uffici per sei anni. Il Paese venne travolto da scioperi, proteste e spinte secessioniste, che Indira Gandhi fronteggiò proclamando lo stato d’emergenza nazionale e adottando misure di estrema forza contro le opposizioni: sospensione dei diritti civili e promulgazione di leggi speciali per rendere ineffettiva la sentenza della Corte Suprema che l’aveva accusata di brogli: migliaia di oppositori e sindacalisti vennero incarcerati, molti furono eliminati senza che nessuno conoscesse la loro sorte e la libertà di stampa subì un imbavagliamento.

Nelle tornate elettorali del 1971-72 la leader replicò allo slogan degli  oppositori, «Indira hatao» (in hindi, «eliminate Indira»), con il contro-slogan «garibi hatao» («eliminate la povertà») e un piano di investimenti statali volto a migliorare le condizioni degli strati sociali più povere. Le sue teorie di sviluppo non trovarono realizzazione concreta, anzi l’India si impoverì ancor più. Ma grazie alla sua capacità di comunicazione, stabilì un contatto diretto con le masse indiane, evitando la tradizionale mediazione di notabili e leader di casta superiore, presenti nei distretti sia rurali, che urbani.

Si fece interprete, proprio attraverso i mezzi di comunicazione, di un autoritarismo populista e accentratore, tanto da allontanare dal partito numerosi influenti membri e da suscitare movimenti di protesta popolare, fra cui le campagne di disubbidienza civile guidate da Jayaprakash Narayan (1902-1979), indipendentista e socialista.

Nei primi anni Settanta la situazione economica indiana peggiorò ulteriormente, con un immiserimento delle classi sociali di tragiche proporzioni, e ciò scatenò un malessere generale che si manifestò in scioperi e proteste, che vennero annientate con durezza dal Governo. Nel 1975 si la svolta autoritaria ebbe un incremento quando il tribunale di Allahabad giudicò la Gandhi colpevole di abuso d’ufficio nelle elezioni del 1971. La condanna la escluse dal Parlamento e da ogni carica pubblica per sei anni. Il 25 giugno, due giorni dopo la sentenza, il Governo emanò un’ordinanza in cui si dichiarava lo stato di emergenza nazionale al fine di neutralizzare «le forze della disintegrazione».

Migliaia di oppositori di Indira Gandhi vennero arrestati in tutta l’India, senza venire processati, fra cui Jayaprakash Narayan. I media di regime, soffocati gli altri, innalzava Indira come l’unica personalità in grado di garantire disciplina, grandezza e integrità nazionale. Gli Stati federati guidati da partiti di opposizione, come Gujarat e Tamil Nadu, vennero posti sotto il diretto controllo del centro.

Mentre andò in scena una serrata propaganda monocorde, venne avviato annunciato un programma in 20 punti per il progresso economico: riduzione dei prezzi di beni essenziali; aumento dei salari dei lavoratori dipendenti;  riforma della proprietà fondiaria; alleggerimento del prelievo fiscale per le classi medie; cancellazione dei debiti per gli indigenti. Trascorsi due anni di Emergency, la Gandhi indisse nuove elezioni generali, forte del fatto che aveva tagliato le gambe all’opposizione.

I suoi piani, tuttavia, non funzionarono. Nel 1977 il Janata party, coalizione dei partiti anti-Indira, vinse le elezioni e formò un governo sotto la guida di Morarji Desai. Proprio nel biennio 1975-1977 venne commessa una violenza inaudita contro gli uomini. Il controllo demografico in India (quasi 1,3 miliardi di abitanti), fin dall’indipendenza del 1947, è stata un’ossessione, affrontata con inaudita aggressività durante l’Emergency: Indira Gandhi, oltre a sospendere la democrazia, diede al figlio Sanjay la guida della campagna di sterilizzazione obbligatoria per gli uomini con due o tre figli, obbligandoli alla vasectomia forzata.

Per due volte, tra il 1977 e il 1978, fu arrestata per corruzione. Ma tornò nuovamente sulla scena politica per le nuove elezioni del gennaio 1980. Capo dell’opposizione, ella si riorganizzò e in pochi mesi fondò un nuovo partito. Vinse le elezioni e ritornò alla guida del Governo il 14 gennaio. Nel suo terzo mandato si occupò degli spinosi scontri fra comunità religiose e movimenti autonomisti. Crebbero i tumulti nazionali, mentre l’enonomia non dava segni di positività. Fu allora che il primo ministro ricorse alla forza militare per domare le rivolte politiche e sociali, mentre ordinò alle forze dell’ordine di incarcerare i loro leader.

Proprio all’inizio degli anni ottanta si sviluppò in India un movimento sikh che perseguiva l’indipendenza del Punjab indiano. Indira Gandhi scatenò contro i guerriglieri un’offensiva militare che espugnò il Tempio d’oro di Amritsar, con l’operazione «Blue star» del 1984: il Tempio sacro dei sikh venne bombardato sanguinosamente, uccidendo centinaia di sikh, i quali si erano qui radunati nella giornata in memoria del martirio del Guru Arjan Dev Ji[3]. L’atto, che voleva arrestare le spinte indipendentistiche del PunjabIn Panjab, venne vendicato cruentemente. Ci fu un’escalation di violenze in tutta l’India, fino ad arrivare all’assassinio del primo ministro.

La mattina del 31 ottobre 1984, alle 9:08, Indira Gandhi scese i tre gradini della residenza per raggiungere il giardino. Vestita di un sari arancione, uno dei colori della bandiera nazionale dell’India, si avviò verso le due guardie responsabili della sua sicurezza, il trentaquattrenne Beant Singh (1950-1984) e il ventunenne Satwant Singh (1962-1989). In tempo di far loro un cenno di saluto e il primo, impugnando una pistola Walther P38, esplose tre colpi nella sua direzione, mentre il secondo esplose tutte le trenta pallottole del suo mitra Sten. Indira Gandhi morì sul colpo.

La notizia dell’assassinio provocò disordini e rivolte, soprattutto a Nuova Delhi, dove migliaia di cittadini sikh vennero uccisi per ritorsione, senza che le forze dell’ordine intervenissero. Il 3 novembre, circa un milione di indiani partecipò ai suoi funerali. Il corpo fu cremato secondo il rito religioso induista e le ceneri furono ripartite in undici urne, che vennero disperse, trascorsi i dodici giorni di lutto nazionale, sull’Himalaya.

La dinastia Gandhi ha proseguito l’impegno politico con i figli (nella foto, a sinistra) Rajiv (1944-1991) e Sanjay (1946-1980), le nuore Sonia (nata nel 1946), moglie italiana e vedova di Rajiv, con i nipoti Rahul (nato nel 1970) e, più defilata, Priyanka (nata nel 1972). Dopo l’assassinio della madre, Rajiv le subentrò come primo ministro e presidente del partito Congress. Inizialmente salutato come l’uomo nuovo («Mr. Clean») capace di imprimere una svolta modernizzatrice all’economia indiana, gestì con difficoltà i conflitti sociali interni e fu coinvolto in episodi di corruzione (scandalo Bofors, 1987). Sconfitto alle elezioni del 1989, mantenne la presidenza del partito fino al maggio 1991, quando anch’egli, il 21 maggio 1991, a Sriperumbudur, fu ucciso da un commando delle Tigri Tamil, l’organizzazione militare clandestina per l’indipendenza dei tamil nello Sri Lanka.

 

[1] Dopo il massacro di Amritsar nel 1919 giunse su posizioni più radicalmente antibritanniche, pubblicizzate sul quotidiano «The Independent», da lui fondato nello stesso anno. Membro dell’Indian national congress, fu cofondatore dello Swaraj party (Partito dell’autogoverno), a esso interno, che presiedette dal 1924 al 1927 e che nacque per proseguire la mobilitazione politica delle forze nazionaliste dopo la sospensione del movimento di non cooperazione. Nel 1928 redasse un progetto di costituzione dell’India come Stato autonomo all’interno del Commonwealth.

[2] Insieme alla sorella Vijaya Lakshmi Pandit trascorse gli anni giovanili in un ambiente familiare estremamente agiato e aperto agli influssi della cultura europea. Ebbe insegnanti privati di origini scozzesi, inglesi e irlandesi, che gli suggerirono la lettura di autori come C. Dickens, G.B. Shaw, J.S. Mill e B. Russell. All’età di 15 anni si trasferì in Inghilterra, dove frequentò dapprima il prestigioso liceo di Harrow, e poi il Trinity college dell’università di Cambridge. Dal 1910 intraprese gli studi giuridici all’Inner temple di Londra, portandoli a termine nel 1912. Al rientro in patria N. si sentiva, come ebbe a riconoscere, «forse più inglese che indiano». Ricalcando le orme paterne avviò una pratica di avvocatura ad Allahabad, che presto abbandonò per dedicarsi interamente all’attività politica. Nel 1912 aderì all’Indian national congress, e nel 1916 conobbe il Mahatma Gandhi. Sostenitore del movimento Home rule, dopo l’eccidio di Amritsar (1919) prese parte alla commissione d’inchiesta formata dai nazionalisti indiani. Nel 1920 aderì al movimento di non cooperazione e nel 1921 venne arrestato; nel corso del movimento per la prima volta si trovò a diretto contatto con la società rurale indiana, verso la quale assunse un atteggiamento di fabiana sollecitudine, che avrebbe conservato negli anni seguenti. Nel 1926-27 compì un viaggio in Europa e nell’Unione Sovietica, in seguito al quale assunse posizioni più marcatamente socialiste; si affermò così come principale rappresentante dell’ala giovanile e di sinistra del Congress.

[3] Guru Arjan Dev (1563 –  1606), scrittore indiano, quinto, dei dieci guru sikh, successore del Guru Ram Das.

 

 

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