La falsaria santità di una povera Chiesa

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Le “santificazioni” laiche della Chiesa d’oggi

 

Chi serve un ideale o un partito politico non può essere santo. È santo soltanto colui che, vivendo il Vangelo e perfezionandosi giorno dopo giorno nelle virtù, serve Cristo e la Chiesa oppure muore martire, testimoniando la Fede con il suo sangue. Da anni, invece, figure divenute miti per il mondo vengono “santificate” dalla cultura “cattolica”. Pensiamo a John Kennedy, Martin Luter King, Mahatma Gandhi, Robert Baden-Powell, L’Abbé Pierre, Raoul Follerau, tutte personalità, fra l’altro, entrate nella collana «Campioni» della Casa Editrice Elledici, i cui profili sono stati scritti da un autore di fama salesiana, don Teresio Bosco. E il messaggio che passa è evidente: uomini della Storia portatori di valori cristiani e non cristiani, capaci di unire, di creare dialogo e ponti, secondo gli obiettivi del Concilio Vaticano II, quando si è rinunciato a condannare l’errore e a fraternizzare con chiunque, obiettivi che hanno dominato su tutto, fagocitando ogni tipo di logica cattolica di reale evangelizzazione e conversione delle anime.

La gravità di una tale operazione è andata a sommarsi alle cause di beatificazione intraprese lungo gli ultimi decenni. Così vediamo politici essere oggetto di indagine da parte di postulatori che tentano di rintracciare segnali di santità dalla loro vita e dalle loro opere. Il risultato è quello di produrre documentazione che contrasta in maniera stridente con i parametri del magistero della Chiesa di sempre.

Alcide De Gasperi servì la DC, non la Chiesa (cfr. https://www.corrispondenzaromana.it/de-gasperi-servi-la-dc-non-la-chiesa/), così come il Vescovo brasiliano Hélder Câmara, tra i fautori dell’«opzione preferenziale per i poveri» del Concilio Vaticano II, nonché interprete in primo piano della teologia della liberazione, ha servito l’ideologia comunista, non la Fede. In questo mese di luglio è stata data via libera anche alla causa di beatificazione del gesuita Pedro Arrupe, che guidò la Compagnia di Gesù negli anni del post-Concilio, il quale sviluppò l’opzione preferenziale per i poveri mentre l’Europa si scristianizzava sempre più e la Chiesa perdeva i suoi connotati di cattolicità per abbracciare un confusionario ecumenismo e adeguarsi ai principi dei poteri forti.

Questa povera Chiesa (non Chiesa povera, reclamata da Papa Bergoglio), che si autodistrugge a ritmi sempre più incalzanti, invece di mettere in atto una doverosa autocritica, ovvero un esame di coscienza, vivamente attesi dalle anime assetate di sorgenti di Fede e Verità, e invece di proporre figure autenticamente sante, vissute per Cristo e per la Sua Chiesa, indica alla gente modelli che sono giunti a compromessi con il mondo per raggiungere scopi distanti dall’evangelizzazione.

I cambiamenti conciliari che si sono verificati nelle procedure di beatificazione e di canonizzazione hanno determinato una semplificazione che ha danneggiato il metodo di rigore antecedentemente previsto e ciò non ha fatto altro che destrutturare l’impianto solido e credibile prima esistente. Oggi ci troviamo quindi, come cattolici, a combattere contro un sistema che propone e/o produce falsa santità.

Per chiarire che cosa sia realmente una beatificazione ed una canonizzazione e quali devono essere, quindi, i criteri sui quali la Chiesa deve poggiare i propri giudizi di santità sui possibili candidati, abbiamo presentato, la scorsa settimana, la prima parte dello studio del teologo Don Jean-Michel Gleize (Le “santificazioni” laiche della Chiesa d’oggi)  ed ora la seconda parte. Il testo, dal titolo Béatification et Canonisation depuis Vatican II, è stato pubblicato, prima della beatificazione di Giovanni Paolo II, sul mensile «Courrier de Rome» nel febbraio del 2011, Anno XLVI n° 341 (531), pp. 1-7 e tradotto in italiano su «La Tradizione Cattolica», n° 86, Anno XXIV (2013), pp. 23-38.

Cristina Siccardi

 

 

Seconda parte

LE DIFFICOLTÀ DERIVATE DAL CONCILIO

Di fatto, la difficoltà fino a questo punto si pone senza possibilità di discussione con l’unica canonizzazione, quella di José-Maria Escrivà de Balaguer (1902-1975), beatificato il 17 maggio 1992 e canonizzato il 6 ottobre 2002 da Giovanni Paolo II. Ci sono anche due beatificazioni sorprendenti (quella di Giovanni XXIII e quella di Madre Teresa), ma visto che la beatificazione non è infallibile, il problema fino ad ora non aveva la stessa urgenza. Non è la stessa cosa con l’annuncio ufficiale della beatificazione prossima di Giovanni Paolo II, perché quest’ultima legittimerà, in modo particolarmente sensibile, l’operato di questo pontefice, cioè l’attuazione del concilio Vaticano II, principalmente sui due punti cruciali del principio della libertà religiosa dell’ecumenismo. D’altra parte, se è vero che una beatificazione è un atto transitorio, che ha per suo fine normale la canonizzazione, abbiamo motivo di temere, a causa della posta in gioco, che il fascicolo Giovanni Paolo II non si fermi ora che è sulla buona strada qui come altrove, i cattolici hanno di che motivare la propria perplessità. Senza pretendere di fornire la chiave di tutta la faccenda (che è riservata a Dio), possiamo almeno rilevare tre difficoltà maggiori, che bastano a rendere dubbia la fondatezza di queste beatificazioni e canonizzazioni nuove. Le prime due rimettono in causa l’infallibilità e la sicurezza di questi due atti. La terza rimette in causa la loro stessa definizione.

 

1a difficoltà – L’insufficienza della procedura

L’infallibilità non evita una certa diligenza umana. L’assistenza divina che causa l’infallibilità delle definizioni dogmatiche si esercita alla maniera della Provvidenza. Quest’ultima, lungi dall’escludere che il Papa esamini con cura le fonti della rivelazione trasmesse dagli apostoli, esige al contrario questo esame per la sua stessa natura. In occasione del concilio Vaticano I, il relatore incaricato di difendere in nome della Santa Sede il testo del capitolo IV della futura costituzione Pastor æternus, definendo l’infallibilità personale del Papa, insiste su questo punto: «L’infallibilità del Pontefice Romano è ottenuta non con la rivelazione né con l’ispirazione, ma con l’assistenza divina. Perciò il Papa, in virtù della sua funzione, e a causa dell’importanza del fatto, è tenuto a usare i mezzi richiesti per mettere sufficientemente in luce la verità ed enunciarla correttamente; e questi mezzi sono i seguenti: riunione dei vescovi, dei cardinali, dei teologi e ricorso ai loro consigli. Questi mezzi saranno differenti secondo le materie trattate e dobbiamo proprio credere che quando Cristo promise a san Pietro ed ai suoi successori l’assistenza divina, questa promessa racchiudesse anche i mezzi richiesti e necessari affinché il Pontefice potesse enunciare infallibilmente il suo giudizio»[1].

Ciò è ancora più vero per la canonizzazione: questa presuppone la più seria verifica delle testimonianze umane che attestano la virtù eroica del futuro santo, così come l’esame della testimonianza divina dei miracoli, almeno due per la beatificazione e ancora altre per una canonizzazione. La procedura seguita dalla Chiesa fino al Vaticano II era espressione di questo estremo rigore. Il processo di canonizzazione presupponeva esso stesso un doppio processo compiuto in occasione della beatificazione, uno che si svolgeva davanti al tribunale dell’Ordinario, che agiva in proprio nome; l’altro che era di esclusiva competenza della Santa Sede. Il processo di canonizzazione comportava l’esame del breve di beatificazione, seguito dall’esame dei due nuovi miracoli. La procedura terminava quando il Sommo Pontefice firmava il decreto; ma prima di apporre quella firma, teneva tre concistori successivi.

Con la costituzione apostolica Regimini Ecclesiæ universæ del 15 agosto 1967 ed il moto proprio Sanctitatis clarior del 17 marzo 1969 Papa Paolo VI ha modificato questa procedura: l’innovazione essenziale è la sostituzione del duplice processo dell’ordinario della Santa Sede con un unico processo che è ormai guidato dal Vescovo in virtù della sua propria autorità, e col sostegno di una delegazione della Santa Sede. La seconda riforma ha avuto luogo in seguito la promulgazione del Nuovo Codice del 1983, con la Costituzione apostolica Divinus perfectionis magister di Giovanni Paolo II, il 25 gennaio 1983. Questa particolare legge, cui ormai rimanda il Codice, abroga ogni disposizione precedente. Essa è completata da un decreto del 7 febbraio 1983. Secondo queste nuove norme l’essenziale del processo è affidato alle cure del Vescovo Ordinario: questi indaga sulla vita del Santo, i suoi scritti, le sue virtù ed i suoi miracoli e costituisce un fascicolo trasmesso alla Santa Sede. La Congregazione esamina tale fascicolo e si pronuncia prima di sottoporre il tutto al giudizio del Papa. Sono richiesti un solo miracolo per la beatificazione e ancora uno solo per la canonizzazione.

L’accesso al fascicolo dei processi di beatificazione e di canonizzazione non è agevole, cosa che non ci dà nessuna possibilità di verificare la serietà con cui è applicata questa nuova procedura. Ma è innegabile che, presa di per sé, essa già non sia rigorosa come la vecchia.

Essa realizza ancor meno le garanzie richieste da parte degli uomini di Chiesa affinché l’assistenza divina assicuri l’infallibilità della canonizzazione, e a maggior ragione l’assenza di errore di fatto nella beatificazione. D’altronde, Papa Giovanni Paolo II ha deciso di fare uno strappo alla procedura attuale (che stipula che l’inizio di un processo di beatificazione non possa farsi prima di cinque anni dalla morte del servo di Dio), autorizzando l’introduzione della causa di Madre Teresa appena tre anni dopo il suo decesso. Benedetto XVI ha agito allo stesso modo per la beatificazione del suo predecessore. Il dubbio ne risulta più legittimo, quando si conosce la fondatezza della proverbiale lentezza della Chiesa in queste materie.

 

2a difficoltà – La collegialità

Se si esaminano attentamente queste nuove norme, ci si accorge che la legislazione ritorna a com’era prima del XII secolo: il Papa lascia ai vescovi la cura di giudicare immediatamente sulla causa dei santi e si riserva solo il potere di confermare il giudizio degli Ordinari. Come spiega Giovanni Paolo II, questa regressione è una conseguenza del principio della collegialità: «Noi pensiamo che alla luce della dottrina della collegialità insegnata dal Vaticano II sia molto conveniente che i vescovi siano associati più strettamente alla Santa Sede quando si tratta di esaminare la causa dei santi»[2]. Ora la legislazione del XII secolo confondeva la beatificazione e la canonizzazione come due atti di portata non infallibile[3]. Ciò ci impedisce di assimilare in modo puro e semplice le canonizzazioni nate da questa riforma con degli atti tradizionali di un magistero straordinario del Sommo Pontefice; questi atti sono quelli con cui il Papa si accontenta di autenticare l’atto di un vescovo ordinario residenziale. Noi disponiamo qui di un primo motivo che ci autorizza a dubitare seriamente che le condizioni richieste all’esercizio dell’infallibilità delle canonizzazioni siano davvero soddisfatte.

Il Motu proprio Ad tuendam fidem del 29 giugno 1998 rafforza tale dubbio. Questo testo normativo ha lo scopo di introdurre spiegandoli dei nuovi paragrafi nel Codice del 1983, aggiunta resa necessaria dalla nuova Professione di fede del 1989. In un primo tempo, l’infallibilità delle canonizzazioni è posta per principio. La Professione di fede del 1989 distingue infatti tre domini di verità che sono oggetto dell’insegnamento del magistero: delle verità formalmente rivelate infallibilmente definite; delle verità autenticamente insegnate; delle verità proposte definitivamente infallibilmente, perché hanno un legame di connessione logica o di necessità storica con la rivelazione formale. Nell’Istruzione Donum Veritatis del 1990, che è il commento autentico di questa Professione di fede, il Cardinale Ratzinger dà come esempio di questo terzo dominio: l’ordinazione sacerdotale esclusivamente riservata agli uomini; l’illiceità dell’eutanasia; la canonizzazione dei santi. Il Motu proprio del 1998 conferisce un’autorità maggiore a questi due testi: il Papa li insegna ripetutamente per conto proprio li insegna riprendendoli per conto proprio e li introduce nel Diritto canonico. Ma in un secondo tempo, il testo di Ad tuendam fidem stabilisce delle distinzioni, che diminuiscono la portata dell’infallibilità delle canonizzazioni, poiché ne risulta che tale infallibilità non si intende più chiaramente in senso tradizionale. È perlomeno ciò che appare leggendo il documento redatto dal Cardinale Ratzinger come commento ufficiale del Motu proprio del 1998[4]. Questo commento precisa in che modo possa ormai il Papa esercitare il suo magistero infallibile. Finora, avevamo l’atto personalmente infallibile e definitorio della locutio ex cathedra così come i decreti del concilio ecumenico. Oramai, avremo anche un atto che non sarà né personalmente infallibile né definitorio per se stesso, ma che resterà un atto di magistero ordinario del Papa: questo atto avrà come oggetto di discernere una dottrina come insegnate infallibilmente dal Magistero ordinario universale del Collegio episcopale. Di conseguenza, il Papa esercita in questo terzo modo un atto del magistero che è infallibile in ragione dell’infallibilità del Collegio episcopale; e questo atto non sarà definitorio per se stesso, perché si limiterà a ciò che insegna il Collegio episcopale[5]. In questo caso, il Papa agisce come interprete del magistero collegiale[6]. Ora, se si osservano le nuove norme promulgate nel 1983 dalla Costituzione apostolica Divinus perfectionis magister di Giovanni Paolo II, è chiaro che nel caso preciso delle canonizzazioni il Papa – per i bisogni della collegialità – eserciterà il suo magistero in questo terzo modo. Se si tiene conto al tempo stesso sia della Costituzione apostolica Divinus perfectionis magister del 1983 che del Motu proprio Ad tuendam fidem del 1998, quando il Papa esercita il suo magistero personale per procedere ad una canonizzazione, sembra proprio che la sua volontà sia di intervenire come organo del magistero collegiale: le canonizzazioni quindi non sono più garantite dall’infallibilità personale del magistero solenne del Papa. Lo sarebbero in virtù dell’infallibilità del Magistero ordinario universale del Collegio episcopale? Finora, tutta la tradizione teologica non ha mai detto che fosse così, ed ha sempre visto le canonizzazioni come il frutto di un’assistenza divina assegnata solo al magistero personale del Papa, assimilabile alla locutio ex cathedra. Ecco un secondo motivo che ci autorizza a dubitare seriamente dell’infallibilità delle canonizzazioni compiute da queste riforme post-conciliari.

 

3a difficoltà – La virtù eroica

L’oggetto formale dell’atto magisteriale delle canonizzazioni e la virtù eroica del santo. Così come il magistero è tradizionale perché insegna sempre le medesime verità immutate, così la canonizzazione è tradizionale perché deve insegnare sempre la medesima eroicità delle virtù cristiane, a partire dalle virtù teologali. Dunque, se il Papa dà come esempio la vita di un fedele defunto che non ha praticato le virtù eroiche, o se le presenta in un’ottica nuova, ispirata più alla dignità della persona umana che all’azione soprannaturale dello Spirito Santo, non si vede in che modo quest’atto possa essere una canonizzazione. Cambiare l’oggetto significa cambiare l’atto.

Questo cambiamento di ottica, ci è attestato innanzitutto da un segno. A partire dal Vaticano II, il numero delle beatificazioni e delle canonizzazioni ha assunto proporzioni inaudite. Giovanni Paolo II così ha effettuato da solo più canonizzazioni di ciascuno dei suoi predecessori del XX secolo e anche più di tutti i suoi predecessori riuniti, dalla creazione della Sacra Congregazione dei Riti da parte di Sisto V nel 1588[7]. Il Papa polacco si è spiegato egli stesso riguardo all’aumento del numero delle canonizzazioni in un discorso ai cardinali in occasione del concistoro del 13 giugno 1984: «si dice talvolta che oggi ci sono troppe beatificazioni. Ma oltre al fatto che ciò riflette la realtà che per grazia di Dio e quella che è, ciò corrisponde anche ai desideri espressi dal Concilio. Il Vangelo è talmente diffuso nel mondo ed il suo messaggio si è radicato così profondamente che è proprio il gran numero delle beatificazioni a riflettere in modo vivo l’azione dello Spirito Santo e la vitalità che fa scaturire nel campo più essenziale per la Chiesa, quello della santità. Infatti è il Concilio che ha messo particolarmente in luce il richiamo universale della santità». Ciò spiega perché la santità a partire dal Vaticano II è considerata come un dato comune. L’idea della vocazione universale alla santità è al centro del capitolo 5 della costituzione Lumen Gentium. Vocazione universale, che comporta due conseguenze. In primo luogo, è da osservare che questo testo non parla affatto della distinzione da una parte tra il richiamo lontano alla santità che in principio si verifica per tutti, e dall’altra tra il richiamo prossimo (ed efficace) che di fatto non si verifica per tutti[8]. In secondo luogo, è da osservare che il testo passa sotto silenzio la distinzione tra una santità comune ed una santità eroica in cui consisterebbe la perfezione propriamente detta[9]: il termine stesso di «virtù eroica» non appare più da nessuna parte in questo capitolo 5 della costituzione Lumen Gentium. E di fatto, a partire dal concilio, quando i teologi parlano dell’atto della virtù eroica, tendono più o meno a definirlo distinguendolo piuttosto dall’atto di virtù semplicemente naturale, invece di distinguerlo da un atto ordinario di virtù soprannaturale[10]. Ecco una prima ragione che ci autorizza a dubitare che le beatificazioni e le canonizzazioni compiute dopo il Vaticano II si identifichino con ciò che la Chiesa aveva sempre voluto fare finora esercitando simili atti.

Questo cambiamento d’ottica traspare anche se si osserva l’orientamento ecumenico della santità, dopo il Vaticano II. L’orientamento ecumenico della santità è stato affermato da Giovanni Paolo II nell’enciclica Ut unum sint così come nella lettera apostolica Tertio millenio adveniente. Il Papa allude ad una comunione di santità che trascende le differenti religioni, manifestante l’azione redentrice di Cristo e l’effusione del suo Spirito su tutta l’umanità[11]. Quanto a papa Benedetto XVI siamo costretti a riconoscere che dà della salvezza una definizione che va nel medesimo senso ecumenico, e che falsa per ciò stesso la nozione di santità correlativa della salvezza soprannaturale[12]. Ecco una seconda ragione per cui non si può che esitare nel vedere negli atti di queste nuove beatificazioni e canonizzazioni una reale continuità con la Tradizione della Chiesa.

 

CONCLUSIONE

Tre serie ragioni autorizzano il fedele cattolico a dubitare della fondatezza delle nuove beatificazioni e canonizzazioni.

In primo luogo, le riforme seguite al concilio hanno comportato delle insufficienze certe nella procedura e in secondo luogo esse introducono una nuova intenzione collegiale, due conseguenze che sono incompatibili con la sicurezza delle beatificazioni e dell’infallibilità delle canonizzazioni. In terzo luogo, il giudizio che si esprime nel processo fa intervenire una concezione perlomeno equivoca e dunque dubbia della santità e della virtù eroica.

Nel contesto derivato dalle riforme postconciliari, il Papa ed i vescovi propongono alla venerazione dei fedeli cattolici degli autentici santi, ma canonizzati al termine di una procedura insufficiente e dubbia. È così che l’eroicità delle virtù di Padre Pio, canonizzato dopo il Vaticano II, non pone alcun dubbio, mentre non si può che esitare davanti al nuovo stile di processo che ha condotto a proclamare le sue virtù.

D’altra parte, la stessa procedura rende possibile delle canonizzazioni un tempo inconcepibili, in cui si assegna il titolo di santità dei fedeli: la cui reputazione resta controversa e presso i quali l’eroicità della virtù non brilla di insigne splendore. È sicuro che, nell’intenzione dei Papi che hanno compiuto queste canonizzazioni di un nuovo genere, la virtù eroica sia quella che era per tutti i loro predecessori, fino al Vaticano II?

Questa situazione inedita si spiega a causa della confusione introdotta dalle riforme postconciliari. Non sapremmo dissiparla a meno di attaccare alla radice e interrogarci circa la fondatezza di queste riforme.

Don Jean-Michel Gleize, «Courrier de Rome», febbraio 2011

(2 – fine)

 

[1] Discorso tenuto a nome della Deputazione della fede da S. E. Mons. Gasset, Vescovo di Bressanone, in occasione della 84ª assemblea generale dell’11 luglio 1870, in risposta al 53º emendamento sul quarto capitolo della costituzione De Ecclesia in Mansi, t. 52, col. 1213. Vedi anche: Cardinale Louis Billot sj, L’Eglise. II – Sa constitution intime, Courrier de Rome, 2010, n°991, p. 486.

[2] Costituzione apostolica Divinus perfectioni magister, AAS, 1983, p. 351. «Putamus etiam prælucente doctrina de collegialitate a concilio Vaticano II proposita valde convenire ut ipsi episcopi magis Apostolicæ Sedi socientur in causis sanctorum tractandis». Questo testo di Giovanni Paolo II è citato da Benedetto XVI nel suo «Messaggio ai membri dell’Assemblea plenaria della Congregazione per la causa dei santi», in data del 24 aprile 2006 e pubblicato nell’edizione in lingua francese dell’Osservatore Romano del 16 maggio 2006, p. 6.

[3] È il parere espresso da Benedetto XIV nel suo trattato Della beatificazione dei servi di Dio e della canonizzazione dei santi, libro 1, capitolo 10, n° 6.

[4] § 9 della Nota della Congregazione per la dottrina della fede pubblicata negli AAS nel 1998, pp. 547-548.

[5] Per esempio, la Lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis, del 22 maggio 1994 è presentata dal cardinale Ratzinger come atto infallibile dell’infallibilità del magistero ordinario collegiale. Nell’intenzione esplicita della Santa Sede, questo testo non potrebbe essere assimilato ad una locutio ex cathdra.

[6] AAS del 1998, p. 548: «Romani pontificis declaratio confirmandi seu iterum affirmandi actus dogmatizationis novus non est sed confirmatio formalis veritatis ab Ecclesia jam obtentæ atque infallibiter traditæ».

[7] Ad oggi Papa Francesco ha superato il numero di beatificazioni e di canonizzazioni realizzate da Giovanni Paolo II (ndc).

[8] Questa confusione implica una predestinazione del Popolo di Dio tutto intero alla santità ed alla salvezza. E questo implica anche una definizione di Chiesa in senso protestante. Al contrario, come ricorda Padre Garrigou-Lagrange (Perfezione cristiana e contemplazione, tomo 2, pp. 419-427), chiamato non vuol dire eletto o predestinato. E questo è il senso delle parabole evangeliche (Lc 18,7; Mt 20,16; 22,14; 24,24; Mc 13,20-22). Tutti i cristiani sono chiamati alla santità in ragione della grazia del loro battesimo e dunque anche in quanto fanno parte della Chiesa; ma non tutti sono eletti, fatto che porta a negare che la Chiesa sia una società di predestinati.

[9] La distinzione tra la virtù comune e la virtù eroica è pertanto una distinzione essenziale: come sottolinea, tra gli altri, Padre Garrigou-Lagrange, la santità eroica corrisponde a un modo divino di agire che resta specificamente distinto dal modo umano e ciò presuppone ben più di una semplice differenza di grado. E il modo divino ha luogo dove l’intervento dei doni dello Spirito Santo, che è comunicato in tutti i battezzati, non resti ordinario, ma nascosto o manifesto, ma raro, ma diventi di volta in volta vieppiù comune e manifesto. Vedi Perfezione cristiana e contemplazione, tomo 1, pp. 404-405.

[10] Per esempio: Jean-Michel Fabre in La santità canonizzata, Téqui, 2003, pp. 104-105. Allo stesso modo nel quadro della vita soprannaturale ordinaria, il battezzato è già sottoposto all’influenza dei doni dello Spirito Santo, influenza che è l’essenza dell’attività soprannaturale in generale e non l’elemento formale che distinguerà l’attività eroica. Come sottolinea Padre Garrigou-Lagrange, questo elemento sarà piuttosto l’influenza dei doni, non tanto in quanto tale, ma in quanto preponderante e manifesta.

[11] «L’ecumenismo dei santi è forse quello che convince di più. La voce della communio sanctorum è più forte di quella dei fautori della divisione» (Tertio millenio adveniente, § 37); «Grazie all’influenza del “patrimonio dei santi” appartenente a tutte le Comunità, il “dialogo della conversione” alla piena e visibile unità appare sotto la luce dell’esperienza. La presenza universale dei santi fornisce, in effetti, la prova della trascendente potenza dello Spirito. Essa è segno e prova della vittoria di Dio sulle forze del male che dividono l’umanità» (Ut unum sint, § 84); «Benché in modo invisibile, la comunione ancora imperfetta delle nostre comunità è, in verità, solidamente unita attraverso la comunione dei santi, vale a dire di coloro che, al termine di un’esistenza fedele alla grazia, sono nella comunione del Cristo glorioso. Questi santi provengono da tutte le Chiese e Comunità ecclesiali, che hanno aperto loro la porta nella comunione della salvezza. Quando si parla di un patrimonio comune, vi si deve includere non solamente le istituzioni, i riti, i mezzi di salvezza, le tradizioni che tutte le Comunità hanno conservato ed attraverso i quali esse si sono formate, ma, in primo luogo e prima di tutto, questa realtà di santità» (Ut unum sint, § 84); «La testimonianza resa a Cristo fino al sangue è divenuta un patrimonio comune ai cattolici, agli ortodossi, agli anglicani ed ai protestanti, come notava già Paolo VI nella sua omelia per la canonizzazione dei martiri ugandesi» (Tertio millenio adveniente, § 37).

[12] Benedetto XVI, «Discorso pronunciato durante l’incontro ecumenico all’arcivescovado di Praga, domenica 27 settembre 2009», in DC n° 2433, p.p. 971-972: «Coloro che fissano il loro sguardo su Gesù di Nazateh con gli occhi della fede, sapendo che Dio offre qualche cosa che è più profondo, inseparabile dall’ “economia” dell’amore all’opera in questo mondo: Egli offre la salvezza. Il termine possiede molteplici significati, ma esprime qualche cosa di fondamentale e di universale, concernente l’aspirazione umana al benessere ed alla pienezza. Evoca l’ardente desiderio di riconciliazione e di comunione che sgorga dalle profondità dello spirito umano. È la verità centrale del Vangelo e lo scopo verso il quale tutto gli sforzi di evangelizzazione e tutte le attenzioni pastorali sono rivolte. Ed è il criterio a partire dal quale i cristiani riorientano costantemente il loro sguardo quando si sforzano di guarire le ferite delle divisioni passate».

 

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4 commenti su “La falsaria santità di una povera Chiesa”

  1. e stiamo ancora a discutere e a disquisire sugli atti di ‘questa’ chiesa e dei suoi papi per dare ragione delle nostre perplessità nei loro confronti, quando dovrebbe ormai essere chiaro che ‘questa’ chiesa non merita certamente di divenire oggetto di riflessione alcuna.
    Questa chiesa va buttata in blocco nella spazzatura delle varie ribellioni a Dio, e nella spazzatura non si va a rovistare, pena dare dimostrazione che si è davvero disperati.
    Altro che “Chiesa che si autodistrugge”: ‘questa è una chiesa nata aborto, e tutti , dico TUTTI, i suoi atti sono aborto: liturgia encicliche canonizzazioni ….tutte scimiottature degli atti della vera Chiesa, per confondere il povero gregge…Dal quale pretende di fare accogliere i suoi ‘campioni’, prima dell’ideologia comunista ora dell’ideologia mondial-migrazionista, come santi , in funzione di sponsor della Menzogna che propaga, secondo lo spirito del Padre della Menzogna, dal quale essa procede.

    1. Carla D'Agostino Ungaretti

      Caro amico BBRUNO, sarei fortemente tentata di darle ragione, ma che dovremmo fare noi povere pecore del gregge di Cristo ormai “senza pastore”? Forse abiurare pubblicamente il Cattolicesimo e confluire in qualche chiesa scismatica? Io sinceramente non me la sento, perché l’educazione che ho ricevuta e la Fede che mi è stata inculcata mi hanno fatto diventare “papista”, non nel significato attribuito a questo termine da Lutero, ma nel senso di farmi sentire visceralmente attaccata alla civiltà, alla cultura e alla fede che mi provengono dai 2000 anni di civiltà cattolica. Non mi resta che soffrire e pregare lo Spirito Santo perché ci rimetta in carreggiata.

  2. Un errore fondamentale è il pelagianesimo: persone non battezzate o cattoliche non osservanti potrebbero fare il bene sufficientemente.
    Quanto alla santità, anche Madre Teresa di Calcutta difficilmente fu santa, perché, tra gli altri errori commessi con varie affermazioni e azioni in materia dogmatica, perpetrò l’errore di non voler battezzare i bambini a lei affidati. Ciò a prescindere dall’invalidità del processo canonico.

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