Le leggi razziali in Italia: una brutta storia da non dimenticare

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Venerdì 22 giugno, il programma “La Grande Storia” di Rai Tre ha dedicato la prima serata (circa due ore) alla ricostruzione dell’antisemitismo voluto da Mussolini nel 1938 e concretatosi con le leggi razziali e la persecuzione degli ebrei. Il programma è stato organizzato e diretto da Paolo Mieli. Dato l’indubbio interesse, specialmente delle giovani generazioni, per il drammatico argomento, “Europa Cristiana”, per gentile concessione della casa editrice “Archivio Storia”, pubblica il capitolo del libro «EVENTI E PROTAGONISTI DEL VENTENNIO FASCISTA», scritto dai giornalisti e divulgatori storici Luciano e Simonetta Garibaldi, dedicato alle leggi razziali. Esso aiuta a comprendere perché furono varate quelle infami leggi e a quali conseguenze portarono.

 

La prima pronuncia contro gli ebrei in Italia apparve il 14 luglio 1938 su «Il Giornale d’Italia», allora il più importante quotidiano della capitale, che pubblicò il «Manifesto della razza» redatto da «un gruppo di studiosi fascisti» – così recitava la premessa – «sotto l’egida del ministero della Cultura popolare». Il «Manifesto» consisteva in dieci «enunciazioni». La nona «enunciazione» recitava testualmente: «Gli ebrei non appartengono alla razza italiana».

Il 26 luglio, quando il segretario del PNF (Partito nazionale fascista), Achille Starace, riceve gli «studiosi» autori del «manifesto», e ha inizio la gran cassa delle «veline», dei comunicati-stampa, della mobilitazione del partito, se ne conoscono i nomi. Sono nomi di primo piano nelle università di mezza Italia e alcuni saranno famosi anche nel dopoguerra. Al termine dell’incontro (come sarà possibile ascoltare al giornale radio della sera e leggere su tutti i quotidiani del giorno dopo), Starace pone l’accento sulle due principali applicazioni pratiche del «manifesto»: nei territori coloniali (l’Italia ha da poco conquistato l’Etiopia), bisognerà «preservare la razza italiana da ogni ibridismo e contaminazione» (quindi, vietata ogni unione tra italiani/e e africani/e: il temutissimo «meticciato»); nel territorio italiano, si dovranno eliminare gli ebrei «dal corpo etnico della nazione». Gli ebrei, dice il segretario del partito, «si considerano da millenni dovunque, e anche in Italia, come una razza diversa e superiore alle altre, ed è notorio che, malgrado la politica tollerante del regime, hanno in ogni nazione costituito, coi loro uomini e coi loro mezzi, lo stato maggiore dell’antifascismo».

E’ con queste parole che il regime fascista sputa praticamente il rospo. Sono anni, infatti, che gli ebrei vengono discriminati e perseguitati in Germania, e anzi a migliaia sono fuggiti dal Terzo Reich trovando ospitalità e una relativa tranquillità anche in Italia, la cui popolazione è da sempre immune dagli isterismi razzisti di altre grandi nazioni europee. In Italia, fino a quel momento, nulla, proprio nulla lasciava presagire una scelta di campo antisemita. Che cosa spinse Mussolini a compierla, nell’estate 1938? Prima ancora che per compiacere il nuovo alleato Adolf Hitler, fu il dispetto per l’ostilità nei confronti dell’Italia fascista, una ostilità che veniva di continuo manifestata nei circoli ebraici internazionali, soprattutto inglesi e americani, e sulla grande stampa controllata da magnati ebrei.

Poiché si capì subito che il «capo» aveva deciso di «dare una lezione agli ebrei», si verificò un immediato allineamento negli ambienti intellettuali, culturali e giornalistici. Improvvisamente tutti coloro che contavano si scoprirono «ariani» e antisemiti. Non parliamo dei grandi mantenuti di Stato (magistrati altolocati, dirigenti ministeriali, alti ufficiali): fu una gara a chi si allineava prima e con maggiore dedizione. Presso il ministero dell’Interno fu creata la «Direzione generale per la demografia e la razza», subito ribattezzata «Demorazza». Pochi giorni dopo la pubblicazione del «manifesto», e prima ancora che il segretario del PNF, ricevendo gli «scienziati», ufficializzasse il razzismo italiano,  Mussolini preannunziò a Giuseppe Bottai, ministro dell’Educazione Nazionale, nei confronti degli ebrei, «soluzioni graduali, tendenti ad escluderli dall’esercito, dalla magistratura, dalla scuola». E Bottai, imparentato con una famiglia ebrea, proprio per questo, cioé perché Mussolini non pensasse che, a causa di quella circostanza, egli volesse frapporre ostacoli o boicottare la sua politica, divenne il più zelante esecutore dell’antisemitismo nella scuola. Il 3 agosto 1938, prima ancora che il Gran Consiglio del Fascismo e il Consiglio dei ministri fossero investiti del problema, vietò l’iscrizione degli ebrei stranieri nelle scuole italiane: la prima, concreta misura razzista.

Il 6 ottobre 1938 il Gran Consiglio del Fascismo si riunì per approvare la «Dichiarazione sulla razza». Essa stabiliva: sono proibiti i matrimoni tra cittadini italiani e appartenenti a «tutte le razze non ariane»; è fatto divieto a tutti i dipendenti pubblici di contrarre matrimonio con ebrei e con stranieri «di qualsiasi razza»; è decretata l’espulsione degli ebrei stranieri, compresi coloro che hanno ottenuto la cittadinanza italiana a partire dal 1° gennaio 1919 (norma che violava apertamente il principio della non retroattività delle leggi) a meno che non siano ultra 65enni, oppure sposati con un italiano/a da prima del 1° ottobre 1938; sono esclusi da questi provvedimenti solo i familiari dei Caduti in guerra, dei volontari di guerra, dei decorati al valor militare, dei «Caduti per la causa fascista». Rimane comunque valida, anche per costoro, l’esclusione dall’insegnamento. Inoltre, gli ebrei non possono avere aziende con 100 o più dipendenti, non possono possedere oltre 50 ettari di terra, non possono prestare servizio militare, non possono lavorare negli impieghi pubblici.

Durante la seduta del Gran Consiglio, conclusasi nelle prime ore della mattina del 7 ottobre, l’unico gerarca che si pronunciò contro la «dichiarazione» fu Italo Balbo. Emilio De Bono e Luigi Federzoni espressero «riserve». Cesare Maria De Vecchi, la cui moglie era ebrea, aveva disertato con una scusa. Tutti gli altri approvarono. Al termine della seduta Mussolini disse: «Ora l’antisemitismo è inoculato nel sangue degli italiani. Continuerà da solo a circolare e a svilupparsi». La «marea antisemita», come la definì Giovanni Gentile, culminò nel Regio Decreto Legge 17 novembre 1938 numero 1728, che accolse tutte le indicazioni del Gran Consiglio trasformandole in legge dello Stato.

Degli 8566 ebrei italiani deportati in Germania dopo l’8 settembre 1943, ne sarebbero tornati 1009. Malgrado questa tragica realtà, i tedeschi continuavano a protestare che «la politica razziale in Italia è stata una burla e una truffa».

 

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