Le poesie piemontesi del Ventura Cartiermetre (Giuseppe Ignazio Antonio Avventura, 1733-1777)

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Nato a Torino nel 1733, si laureò in Giurisprudenza nel 1755 e fu poi ufficiale dell’esercito, e precisamente prima luogotenente, nel 1757, e poi, dall’anno seguente, Quartiermastro[1], grado donde prese il suo nom de plume[2], dei Dragoni di Piemonte; morì ancora giovane (44 anni) per una disgrazia di cui però ignoriamo i particolari[3]. È autore di 16 tòni (ma di altri si dubita se non siano suoi) anonimi, ma di cui il nome dell’Autore era comunque noto ai più. A differenza di altri tòni coevi, in genere di argomento amoroso-galante (talvolta anche licenziosetti anzi che no…) o al più blandamente satirico nei riguardi di varie situazioni di “società” (leggasi: alta società), quali balli, cene[4], ricevimenti, matrimoni la maggioranza dei componimenti del Ventura toccano temi a volte rischiosi, come la satira sociale e politica, anti-nobiliare e anti-clericale, in certo qual modo anticipando, anche se con toni molto meno aggressivi e polemici, la poesia rivoluzionaria del Calvo (1773-1804).

Tali sue opere, come d’altra parte già abbiamo notato per l’Isler, non furono pubblicate vivente l’Autore (evidentemente per non rischiare richiami ufficiali, vista la sua posizione di appartenente all’amministrazione pubblica), ma circolarono manoscritte e solamente dagli inizi del secolo XX si sono avute delle edizioni (più o meno attendibilmente valide) di esse.

A differenza del Calvo, a lui successivo di circa trent’anni, il Ventura non parte, nella sua satira socio-politica, da posizioni rivoluzionarie: non si tratta quindi di un’opera “ideologizzata”, ma più equilibrata, disposta ad ammettere le ragioni di tutti (clero, nobiltà, borghesia). Per quanto riguarda invece gli scrittori satirici a lui precedenti, e in particolare l’Isler, discostandosi dalle tematiche isleriane e dall’ambiente in cui esse erano inserite, le sue canzoni non hanno per protagonisti i popolani e la piccola borghesia della periferia urbana, quale era all’epoca il borgo della Crocetta, ma i cittadini torinesi della medio-alta borghesia, cui anche il Ventura apparteneva.

Come testimonianza di quanto appena affermato possiamo leggere il tòni nr. 7, in cui la satira anti-nobiliare è temperata e resa meno acre sia dal rispetto verso la figura del sovrano sia dalla volontà di distinguere tra nobili attenti ai bisogni degli altri, sui quali quindi si poteva contare per un’opera di cauto riformismo, e nobili invece assolutamente e rigidamente fermi sulle loro posizioni di privilegio. Se si fossero ascoltate di più (in Piemonte come altrove) le voci di persone equilibrate come il Nostro, probabilmente la rivoluzione (e in seguito anche i suoi eccessi) non avrebbe avuto nemmeno la possibilità di presentarsi sulla ribalta della Storia o, al massimo, avrebbe lasciato un segno minimo in essa.

Infine, la lingua utilizzata dal Ventura è, a differenza di quella dell’Isler, decisamente più italianizzata (e talora anche francesizzata)[5] e in alcuni casi più rudemente disinibita.

La canzone “sul bondisserea” (forma all’epoca consueta di saluto, che avrebbe dato origine a “dserea” e poi al moderno “cerea”) dà appunto testimonianza, ma in forma non acrimoniosa e violenta (come poi avrebbe fatto la Rivoluzione francese, e gli scrittori ad essa afferenti) dei contrasti all’interno della società torinese della seconda metà del Settecento, in cui il mondo dei privilegiati e della borghesia avanzante trovavano, nei costumi e nel comportamento, motivi di critica reciproca, di frizioni e di distinzioni mal sopportate. Il testo non è datato, come d’altra tutti tranne uno nella raccolta del Ventura, ma può essere collocato tra il 1765 e il 1773 grazie a due riferimenti interni: al v. 92 si parla, accennando alle sue malefatte, del conte Carlo Maria Stortiglioni (citato in piemontese come Stortion), che negli anni 1761-62 si rese colpevole di contraffazione di biglietti delle regie finanze; venendo condannato a morte nel 1765 (terminus post quem), mentre al v. 97 si cita, parlandone in termini che fanno pensare che fosse ancora vivo, il torinese Gaspare Giuseppe Brea, che fu primo presidente del Senato e nel 1768 ebbe il titolo di conte; morendo nel 1773 (terminus ante quem).

La struttura metrica del testo è una delle forme più comuni nel tòni piemontese: la quartina di ottonari, alternatamene piani e tronchi e con rima anch’essa alternata (abab).

 

7. TÒNI SUL BONDISSEREA SCRIT CON ÓRDIN PRECIS

Con col sò “bondisserea”[6],

coj sgnorass am sëcco già,

ansi a dijo mach “dserea”,

për sostnì soa nobiltà.

 

A lo dijo con na bòria,

da tiresse ij pugn sui dent,

e la soa pì bela glòria,

l’é spressé sempre la gent.

 

Coj ch’a l’han peui la caròssa,

e ch’a spacio protession,

coj afeto[7] una vos gròssa,

e a procuro d’aussé ’l ton;

 

Un sert ton ch’a san copielo

dal parlé con Monsegneur[8],

ma a l’han mai savù imitelo

ant j’assion e ant sò bel cheur.

 

’D vòte mi i-j saluto gnanca,

i fas finta ’d guardé an sù,

tant am dijo, con n’aria franca,

an passand: “dserea monsù”.

 

Maledet tutti ij dserea,

e tùit coj fanfaronass,

quand a vnèisso bin da Enea[9],

i-j direu ch’a son ëd gofass.

 

Sia fuss përchè ch’soa mare,

a-j ha faje ant un bel let,

përchè nòbil l’é sò pare,

a son fier com ëd Bajaset[10].

 

Smij-lo pa ch’a sio dla rassa

dij Scipion e dij Pompei,

e che barba Giòve a-j fassa,

con la smens dij semidei?

 

A sarà pitòst Mercuri,

ch’a-j ilustra tant sò sangh,

a l’ha dilo ’l cont Carburi[11],

ch’a l’é un médich dël prim rangh.

 

A la fin s’ant soa famija

a-i é staje ’d generaj,

ch’am përmëtto ch’i-j lo dija,

ch’as je treuva ’dcò ’d sonaj[12].

 

Peui ’l mérit ch’as son fasse

ij sò vej l’é përsonal,

e s’ coj-là son segnalasse,

lo-lì a fà né bin né mal.

 

Ël pì gran pitagorista,

l’ha mai dit ch’tut l’onor,

e ’d Sempròni e ’d Giambatista,

passa an còrp al sucessor.

 

Pur, s’a veulo ch’la soa cera

sia guardà con distinsion,

manca pa meud e manera,

ëd distingse con j’assion.

 

S’un marches a salutèissa

con ampò pì ’d siviltà,

é-lo fòrsi ch’a përdèissa

o l’onor o ’l marchesà?

 

Ansi, tut a l’incontrari,

quand un nòbil l’é grassios[13],

tut ël mond për l’ordinari,

l’é vers chial[14] pì rispetos.

 

A l’han pa tanta paura

’d dì: “i son sò servitor”,

s’a l’han bzògn d’una scritura,

ëd càich bon procurator.

 

Ma për àut as vad ch’a stento,

ant ël feje d’onestà;

e surtì da lì as në pento,

pes che ’d tuti ij sò pëccà.

 

As vad bin ch’ant la capòcia,

a l’han nen che ’d fum e ’d rat;

s’un filòsof a-j adòcia,

a dis sùbit ch’a son mat.

 

Salamon an ha avisane

ch’tut a l’era vanità,

përchè a-i era mach ëd putane,

ant soa cort e ’d nobiltà;

 

Con tut lò, mi sì im protesto

Ch’i rispeto ij gròssi sgnor,

l’é ij sò vissi ch’i detesto,

ma j’heu peui nen[15] contra ’d lor.

 

Për mi, invidio nen soa sfera

né ij sò dné né ij sò blason,

j’hai nen bzògn ëd soa bela cera,

né dla soa protession.

 

Vorìa mach ch’lor as pensèisso

ch’a son sùdit e nen re,

ch’a stimèisso e salutèisso

ampò mej ij borzoé[16].

 

J’oma ’dcò d’onor an testa

e s’ quaicun a l’é un bricon

e fà nen na vita onesta

a-i é bin ’dcò dij Stortion[17].

 

I conven-o ch’a l’é vèra

ch’ant la tropa a brilio ’d pì;

ma s’a fussa an temp ëd guèra

a sarìa nen così.

 

Fratant noi j’avomo un Brea[18],

un Lagrangia[19] e d’àitri omnon,

e për lò, ’dnans ’d dì “dserea”,

ch’a rifleto a sta canson.

 

 

Tòni sul “bondisserea” scritto con ordine preciso

Con quel loro “bondisserea” quei signoroni mi seccano già, anzi dicono soltanto “dserea” per sostenere la loro nobiltà./ Lo dicono con una boria da tirarsi dei pugni sui denti e la loro più bella gloria è disprezzare sempre la gente./ Quelli che poi hanno la carrozza e che spacciano protezione, quelli affettano una voce grossa e procurano di alzare il tono./ Un certo tono che sanno copiarlo dal parlare con Sua Altezza, ma non hanno mai saputo imitarlo nelle azioni e nel suo buon cuore./ Delle volte i neppure li saluto, faccio finta di guardare in su, tanto mi dicono con un’aria franca, passando, «dserea monsù»./ Maledetti tutti i «dserea» e tutti quei fanfaroni, anche se venissero tutti da Enea direi che sono dei goffacci./ Sia che fosse che la loro madre li ha fatti in un bel letto, perché il loro padre è nobile, sono fieri come Bajazet./ Non sembra forse che siano della razza degli Scipioni e dei Pompei e che zio Giove li faccia con il seme dei semidei?/ Sarà piuttosto Mercurio che illustra tanto il loro sangue, l’ha detto il conte Carburi che è un medico del primo rango./ Alla fine, se nella loro famiglia ci sono stati dei generali, mi permettano che glielo dica che si sono trovati anche dei coglioni./ Poi, il merito che si sono conquistato i loro antenati è personale e, se quelli là si sono segnalati, ciò non fa né bene né male./ Il più grande pitagorista non ha mai detto che l’onore di Sempronio e di Giambattista passi nel corpo del suo successore./ Eppure, se vogliono che la loro faccia sia guardata con distinzione, non manca né modo né maniera di distinguersi con le azioni./ Se un marchese salutasse con un po’ più di civiltà, sarebbe forse che perderebbe o l’onore o il marchesato?/ Anzi, tutto al contrario, quando un nobile è gentile, tutto il mondo, d’ordinario, è più rispettoso verso di lui./ Non hanno tanta paura di dire «Son servo suo» se hanno bisogno di una scrittura di qualche bravo procuratore./ Ma per altro si vede che stentano nel fargli delle onestà, e usciti da lì se ne pentono peggio che di tutti i loro peccati./ Si vede bene che nella capoccia non hanno se non fumo e topi; se un filosofo li adocchia, dice subito che sono matti./ Salomone ci h avvisati che tutto era vanità perché c’erano solo puttane alla sua corte, e della nobiltà./ Con tutto ciò, io qui dichiaro che rispetto i grandi signori: sono i loro vizi che detesto, ma non ho nulla contro di loro./ Per me, non invidio la loro sfera, né i loro soldi né i blasoni,/ non ho bisogno della loro bella faccia, né della loro protezione./ Vorrei solo che loro pensassero che sono sudditi e non re, che stimassero e salutassero un po’ meglio i borghesi./ Abbiamo anche noi dell’onore in testa e se qualcuno è un briccone e non fa una vita onesta ci sono anche bene degli Stortiglioni./ Convengo che è vero che nella truppa brillano di più, ma se fossimo in tempo di guerra non sarebbe così./ Frattanto noi abbiamo un Brea, un Lagrangia e altri grandi uomini, e per ciò, prima di dire “dserea”, riflettano su questa canzone.

La seconda composizione del Ventura che prendiamo in esame è il tòni intitolato L’istrussion dël Corporteur, senza data, ma di poco posteriore al 1774. Nel 1774 infatti era stato pubblicato un libretto, La mascarade du colporteur français, quasi sicuramente a Torino dal Mairesse, attribuito dal Manno[20] a un certo Gian Pietro Dunant o Dunand (ricordato anche da Nicomede Bianchi[21]), studente savoiardo originario di Vers nel Genevese, «autore di altre satire, per le quali fu anche processato»: processato e, aggiungiamo noi, incarcerato per la Mascarade, in cui parlava in modo giudicato troppo libero, e quindi offensivo, di varie signore dell’alta società torinese. Da questo fatto il Ventura ricavò la materia per il suo tòni (numero 6, dell’edizione del Clivio[22]) che inizia coi versi: Pòvra còsa ch’a l’é mai/ studié tròp e avèje ’d guaj), tòni in cui si prendevano le difese del povero colporteur, prigioniero perché appunto colpevole di aver amabilmente preso in giro le nobildonne torinesi.

La struttura metrica del componimento non presenta – a differenza di altri – una scansione strofica precisa: sono ottonari (tronchi e piani liberamente alternati) a coppie in rima baciata.

 

6. L’ISTRUSSION DËL CORPORTEUR

Pòvra còsa ch’a l’é mai

studié tròp e aveje ’d guaj!

certament col corporteur[23]

ch’a l’ha scrit për sò maleur

ampò tròp liberament,

a sarìa pì content

s’a l’avèissa passà j’ore

a contene a nòstre sgnore,

sensa fé tuti coj vers

tròp satìrich e përvers,

ch’a la fin a l’han portà

un’orìbil zagajà[24]

tra le bele e ij sò galan

e le tòte e le maman,

ch’a son peui sburdisse tant

a la vista dl’agiutant.

 

Òh bej spìrit ch’iv amuse

volonté con vòstre Muse,

s’i vorré satirisé,

pijé ben guarda d’ingiurié.

Una sàtira përfeta

a dev esse bin discreta

e nen fé la piaga creusa[25];

a dev esse com la reusa

ch’a feriss epur a pias.

Scrive pur an santa pas

fin ch’i veule, òh bon poeta;

tut ël pùblich as dileta

a sentì vòstre facessie,

ma dovreje com le spessie

e savèj-je regolé

com a fà un bon cusiné,

ch’a fà nen con trascuransa

e ch’a buta ant la pitansa

né tròp pèiver, né tròp sal

për timor ch’a fassa mal.

 

Circa peui a le damin-e

ch’a son ’d bele figurin-e

ben difìssil a copié,

quand caicun a vorrà fé

con finëssa ij sò ritrat,

bzògna nen ch’a fasa ’l mat

ma ch’a sapia fé spiché

mach le còse da stimé,

e s’a s-ciàira càich difet

a dev deje un bon aspet,

opur fé com ël pitor,

che për fesse pì d’onor,

a curvìa con ëd zandaj[26]

ij difet dj’originaj.

 

Apress ’d lò, ’dnans ch’i finissa,

bzògna ancor ch’iv avërtissa

ch’a-i é ’d serti pont dlicà,

ch’a van sempre manegià

con prudensa e parcament

sensa fé tant ij sapient,

e, s’i veule ch’iv la dija,

a l’é mej an poesìa

fé ’d canson an piemontèis,

ch’n’é volèje fé ’n fransèis

e tricela[27] a la Rossò

për finila a pòrta ’d Pò[28].

An sostansa cost poeta

ch’a l’é stàit butà a la dieta,

s’a savèissa sti precet

a sarìa stà discret,

e s’a fussa stà pi grinta

as trovrìa nen là drinta

a fé ij vers ch’a fà l’oloch[29]

quand a canta ansema al cioch.

 

Donque, ò fieuj, ch’i satirise

pijé ben guarda a dì ’d sotise[30],

për schivié tuti ij rumor

e nen fé com cost autor,

ch’a l’é stàit tròp imprudent

e për lò presentement

a në fà la penitensa.

Ma për divla an confidensa

un poeta ant na përzon

am fà quasi compassion.

 

Care sgnore, ch’i tormente

tanti cheur epur i sente

anvers ’d lor ampò ’d pietà,

agiuté col dësgrassià

e dispon-e an sò favor

tuti quanti ij revisor.

S’a l’ha dit càich insolensa

për mancansa d’esperiensa,

përdoné soe debolësse:

a son stàite vòstre blësse

ch’alterand ij sò pensé

a l’han falo deliré.

 

Peui riflete e crëdlo pura

ch’i farìe manch figura

s’a l’avèissa dive nen[31].

Ansi crëdde ch’motoben

ch’a son stàite dësmentià

a son pi mortificà.

Donque i deve nen odielo,

ansi i deve arcomandelo

e preghé tuti ij fiscaj[32]

ch’a lo lìbero dai guaj.

 

Ma s’i veule nen scoteme,

sté peui nen a strapasseme

com s’i fussa un malcreà,

bele sgnore, an carità

s’i sé càude ant cost afé,

steme gnanca a nominé.

 

Povera cosa che è mai studiare troppo ed avere dei guai! Certamente quel pettegolo, che ha scritto per sua disgrazia un po’ troppo liberamente,/ sarebbe più contento se avesse passate le ore a raccontare alle nostre signore, senza fare tutti quei versi troppo satirici e perversi, che alla fine hanno portato un orribile baccano tra le belle e i loro galanti e le ragazze e le mamme, che si sono poi tanto spaventate alla vista dell’aiutante di polizia./ Oh begli spiriti, che vi divertite volentieri con le vostre muse, se vorrete satireggiare, fate attenzione a non ingiuriare. Una satira perfetta deve essere davvero discreta e non fare la ferita profonda; deve essere come la rosa che ferisce eppure piace./ Scrivete pure in santa pace fin che volete, oh buoni poeti: tutto il pubblico si diletta a sentire le vostre facezie, ma usatele come le spezie e sappiatele misurare come fa un buon cuoco, che non agisce con trascuratezza e che mette nella pietanza né troppo pepe né troppo sale nel timore che faccia male./ Quanto poi alle damine che sono delle belle figurine davvero difficili da copiare, quando qualcuno vorrà fare con finezza il loro ritratto, non bisogna che faccia il matto, ma sappia fare spiccare solo le cose da stimare e, se vede qualche difetto, deve dargli un bell’aspetto oppure fare come il pittore che, per farsi onore maggiore, copriva con drappi sottili i difetti degli originali./ Dopo di ciò, prima che io finisca, bisogna ancora che vi avverta che ci sono alcuni punti delicati che vanno sempre maneggiati con prudenza e parcamente, senza fare tanto i sapienti e, se volete che ve lo dica, è meglio in poesia far delle canzoni in piemontese che non volerle fare in francese e imbrogliarla alla Rousseau per finire a Porta di Po. In sostanza questo poeta, che è stato messo a dieta, se sapesse questi precetti sarebbe stato discreto e, se fosse stato più furbo, non si troverebbe là dentro a fare i versi che fa l’allocco quando canta insieme al gufo./ Dunque, oh ragazzi che satireggiate, state ben attenti a non dire sciocchezze per evitare tutti i rumori e non fare come questo autore, che è stato troppo imprudente e per ciò presentemente ne fa la penitenza. Ma per dirvela in confidenza, un poeta in una prigione mi fa quasi compassione./ Care signore, che tormentate tanti cuori, eppure sentite verso di loro un po’ di pietà, aiutate quel disgraziato e disponete in suo favore tutti quanti i revisori della censura. Se ha detto qualche insolenza per mancanza di esperienza, perdonate le sue debolezze: sono state le vostre bellezze che alterando i suoi pensieri lo hanno fatto delirare./ Poi riflettete, e credetelo pure, che fareste meno figura se non vi avesse detto nulla. Anzi, credete che molte che sono state dimenticate sono più mortificate. Dunque, non dovete odiarlo, anzi dovete raccomandarlo e pregare tutti i giudici che lo liberino dai guai./ Ma, se non volete ascoltarmi, non state poi a strapazzarmi come se io fossi un malcreato: belle signore, per carità, se siete calde in quest’affare, non state neppure a nominarmi.

 

Appendice

Nel fondo Patetta della Biblioteca Apostolica Vaticana (sezione mss. autografi, s.v. Avventura) troviamo una lettera (datata 19/7/1942, da Castello d’Annone-Asti) scritta dal poeta piemontese Giuseppe Pacotto (Pinin Pacòt; 1899-1964) a Federico Patetta per comunicargli (chiedendogli anche lumi in merito) il ritrovamento di una poesia italiana, che egli suppone essere collocabile nella stessa situazione relativa al tòni del Corporteur: tale lettera si presenta infatti come una sorta di difesa da parte di un poeta torinese (il Ventura?) delle nobili donne torinesi oggetto delle critiche presenti nella poesia irriverente scritta in precedenza dal Dunant. Se l’autore fosse (come ipotizzava Pacòt) il Ventura egli avrebbe da una parte preso le difese (in piemontese) del Colporteur e dall’altra (in italiano) delle nobildonne torinesi da lui criticate. Un colpo al cerchio ed un colpo – come si dice – alla botte, a dimostrazione, probabilmente, di come lo pseudo-Ventura ritenesse poi non così importante e fondamentale la questione, da affrontarsi quindi con un minimo di buonsenso e di equilibrio, senza riservarle tutta quell’importanza che altri invece sembravano attribuirle.

Si tratta di un testo di 28 quartine (per un totale di 112 versi) formate da tre ottonari piani ed uno tronco, variamente rimati.

Ecco la poesia, che ha come unico merito quello di tramandarci nomi (e grazie) di alcune nobildonne torinesi della metà circa del Settecento, mostrandoci – come dice Pacòt nella sua missiva – “come una finestra aperta sulla vita di società della Torino di allora, finestra alla quale si affaccerebbero sorridendo, vive con i loro nomi e la loro grazia, alcune nobili damigelle, che i versi d’un anonimo hanno salvato dall’oblio”.

Tali damigelle citate sono: Turinetti, Fasano, Brea, Vercellone, Borbonese, Pias, Barberis, Spanzotti, Rognone. Non essendo io – ahimè – uno storico (ma più modestamente un filologo) non ho idea di chi esse possano essere: se qualcuno ci potrà aiutare sarà il benvenuto…

 

Risposta al pasticcio

Belle donne torinesi

che uno stolido cervello

avvilir cercò bel bello

e in pasticcio trasformar.

 

Io che il vostro onor offesi,

grazïoso e amabil sesso,

prender voglio un tale eccesso

prontamente a vendicar.

 

E provar con argomenti

infallibili ed invitti

che i difetti ch’ei[33] v’ha ascritti

sono pregi singolar.

 

Tanto è ver che i maldicenti

spesso il ben prendon per male

e lo spacciano per tale

né san punto argomentar.

 

Alla vaga Turinetti

pria dirò che si rallegri

perché al par di biondi e negri

son amabili i suoi crin.

 

I suoi crin d’oro perfetti

né già rossi, ond’innamora

tali a noi la bella aurora

suol mostrarli in sul mattin.

 

Così il fronte ognor sereno

della tenera Fasano

criticar ei cerca invano,

e ritorna a traveder

 

nel candore al bianco seno

li risponde a maraviglia

e va poi sulle due ciglia

ugualmente a ricader.

 

Quelle ciglia ch’ei riprendeva

nella Brea saggia e cortese

quell’ingegno fan palese

che accompagna il Suo trattar.

 

Ed infatti chi l’intende

favellar pochi momenti

da gentili accorti accenti

li si sente incatenar.

 

Della bella Vercellone

i languenti e mesti lumi

ponno al cor de’ stessi Numi

portar fiamme e dolce ardor.

 

E dir posso con ragione

che quegl’occhi a mover parchi

son pietosi e sono gli archi

onde vibra i dardi amor[34].

 

Chi può creder che due guance

tumidette e pari a rose

siano brutte e diffettose

né sian pregio di beltà?

 

Rida dunque delle ciance

la leggiadra Borbonese

di colui, che la pretese,

biasimar per questo qua.

 

Della Pias neppure il naso

può carpire con ragione

e chi intende proporzione

non può dare il torto a me.

 

Li dev’essere persuaso

che a un bel corpo maestoso

un bel naso e dignitoso

Accordar anche si de’.

 

Io non so se i labbri suoi

la Barberis prestar voglia

ma se mai le vien tal voglia

per capriccio o per amor

 

so che poi nessun di noi

in pasticcio la vorrebbe

ma un altr’uso ne farebbe

di gran lunga assai miglior.

 

Circa i denti ora rispondo

mento o collo tutto a un tratto

che son varj affatto affatto

circa a questo di parer.

 

A chi bianco, curto e tondo

piace il dente, collo e mento

del rovescio altri è contento

chi il vuol lungo, acuto e ner.

 

Criticare meno è vano

la Spanzotti intorno al piede

e ciascun che ha gl’occhi vede

ch’è ciò sol malignità.

 

Alla candida sua mano

pur si tenta inutil taccia

e rispondono le braccia

del suo volto alla beltà.

 

Circa il teint[35]della Rognone

dir si può che è bianco e rosso

e comprendere non posso

perché sia da impasticciar.

 

Dei colori se l’unione

forma il teint, negar non puossi

che i color sian bianchi e rossi

non si ponno biasimar.

 

Or del resto la mia Musa

che modesta si professa

dal cantar s’arresta e cessa

e si sente ammutolir.

 

Di parlar ella ricusa

di mammelle ed altre cose

che per sé pericolose

far la possono arrossir.

 

Donne belle ho terminato

e da chi vi vilipese

con calore vi ho diffese

come ognor son pronto a far.

 

Così sempre ho consumato

e ad onor del sesso vostro

molta carta e molto inchiostro

son disposto a schiccherar.

 

[1] In realtà la qualifica (più che il grado) di Quartiermastro equivaleva ad una sorta di attuale ufficiale del Commissariato: un incarico che a quel tempo era “civile”, seppur inquadrato in un reparto militare.

[2] Cioè Cartiermetre, altro francesismo del lessico militare (< Quartier-maître). Ricordiamo che, oltre al termine maschile metre (letteralmente “maestro”), nel lessico sette-ottocentesco piemontese abbiamo anche il femminile metrëssa (< maîtresse), col significato di “amante, mantenuta”: vedi, come esempio in poesia, Norberto Rosa (1803-1862), nell’ode Ij piasì, v. 33 (dle metrësse përtendùe).

[3] La notizia della sua morte improvvisa la ricaviamo da un tòni scritto poco dopo la disgrazia dall’avvocato Pietro Paolo Burzio, che fu anche il primo raccoglitore di tutti i testi (ancora manoscritti) del Nostro.

[4] Comunque anche il Ventura toccò – seppur molto raramente – temi di questa sorta: ricordiamo il tòni (l’unico di data certa) Canson su na sin-a dàita da le dame ’d Turin ai 17 gené 1773, che inizia col verso Bej corin, doce përson-e, in cui si ricorda lo “scandalo” sollevato da una cena organizzata, in casa della marchesa di Roddi Cinzano, da alcune dame della nobiltà torinese, riservata alle sole donne, con esclusione assoluta degli uomini.

[5] Dato che le opere del Ventura si collocano cronologicamente all’incirca dal 1760 in poi, e quindi contemporanee o di poco posteriori a quelle dell’Isler, non si può pensare che la lingua usata quotidianamente fosse molto diversa. L’ipotesi più accettabile è che, mentre l’Isler si rivolgeva ad un pubblico popolare, e quindi in genere linguisticamente più conservatore, il Ventura si indirizzava invece più propriamente alla medio-alta borghesia, normalmente più influenzabile, nel parlare, da lingue “forti” e potremmo dire di “tendenza”, quali l’italiano ed il francese.

[6] La forma di saluto qui presentata come simbolo di distacco supercilioso da parte di alcuni nobili nei confronti dei borghesi deriva dalla formula bondi sgnorea (arcaico per sgnorìa), e quindi “buongiorno signoria”, poi trasformatasi in bondìdzerea e poi ancora in bondisserea. Una sua abbreviazione è la forma attuale cerea, che non ha alcun riferimento (come qualche buontempone aveva ipotizzato: per es. il Ghirardi nel suo “Almanacco di Torino” nr. 5, citato in A. Aly Belfadel, Grammatica piemontese; 1933; p. 265, nota 3) col greco classico chàire/χαιρε, equivalente del latino vale (stai bene, e quindi addio). Da non confondere con la cerea (o anche serea, sereja) che è l’erba aromatica nota in italiano come “santoreggia”, il cui etimo è il latino (herbam) satureiam.

[7] Cominciamo con gli italianismi di dubbio gusto (afeté < ital. “affettare”, nel senso metaforico di “ostentare con albagia”): si cominciava in quel tempo a pensare – soprattutto da parte di intellettuali di estrazione sia aristocratica che borghese – che infarcire il lessico piemontese di termini presi di peso da lingue considerate “nobili” (italiano e francese) potesse nobilitare la lingua, rendendola più “alta”. È quello che sta succedendo ora , nell’italiano, con l’uso invasivo e spesso inutile di termini e locuzioni o direttamente inglesi o esemplati sull’uso inglese.

[8] Era il titolo d’onore con cui ci si rivolgeva al Re.

[9] Altra testimonianza del fatto che l’autore si rivolgeva ad un pubblico elevato: la citazione “dotta” (anche se molto comune, come in questo caso) non è mai presente nelle opere dell’Isler. I riferimenti dotti continuano anche nei versi seguenti.

[10] La figura di Bajazet come esempio di superbia è probabilmente da associare al dramma per musica di Antonio Vivaldi, intitolato appunto Bajazet (ma conosciuto anche come Il Tamerlano), composto nel 1735.

[11] Si tratta presumibilmente del conte Marco Carburi (Cefalonia, 1731-Padova, 1808), la cui raccolta di materiali appartenenti alla storia naturale fu acquistata dal re Carlo Emanuele III nel 1764 (cfr. G. G. Bonino, Biografia medica piemontese; Torino 1825; vol. 2, p. 178).

[12] Letteralmente “sonaglio”, ma è forma comunemente usata (anche in altri dialetti: ne abbiamo esempi nel Belli e nel Porta) per “stupido, imbecille”.

[13] Notiamo che in piemontese (allora come oggi) grassios non equivale all’italiano “grazioso” (in senso estetico), ma a “gentile, beneducato”, e più precisamente col valore di “persona con cui fa piacere stare”; cfr. italiano “cortese” nella sua accezione antico-medievale.

[14] Forma arcaica, presente anche nell’Isler, per chiel (egli, < lat. qui i/ellum). Così, altra forma arcaica è il càich, alla fine della quartina seguente, per il più moderno chèich/chei (qualche).

[15] Come normalmente nella lingua arcaica nen (o anche nella forma nent) era usato come pronome indefinito neutro (“niente, nulla”). Solo più tardi, nel secolo XX, si trasformò in avverbio negativo (“non”) in alternativa col francesismo pa.

[16] Anche i termini del linguaggio socio-politico (come abbiamo già visto per quelli della moda, della gastronomia e dell’arte militare) hanno origine generalmente dal francese, di cui sono prestiti o calchi. Solo dalla metà del secolo XIX (in relazione coi sentimenti patriottico-risorgimentali filo-italiani della borghesia piemontese e di parte della aristocrazia) molti di questi vocaboli furono sostituiti dai corrispondenti italiani: nel caso di specie borghèis (< ital. borghese) prese il posto di borzoé (< franc. bourgeois). Ancora una volta furono la piccola borghesia e il popolo a rimanere più a lungo fedeli al lessico più tradizionale: ricordo mia nonna (classe 1896, di estrazione piccolo borghese) usare normalmente il termine ridò (tendina per finestra), quando non solo ormai i più giovani, ma anche persone anziane ma dell’alta borghesia già usavano tenda, tendin-a.

[17] Con la forma piemontesizzata Stortion: si allude al conte Carlo Maria Stortiglioni, che negli anni 1761-62 si rese colpevole di contraffazione di biglietti delle regie finanze e che fu condannato a morte nel 1765.

[18] Gaspare Giuseppe Brea, torinese, fu primo presidente del Senato; nel 1768 ebbe il titolo di conte; morì nel 1773.

[19] Lagrangia: è il matematico Luigi Lagrange (Torino, 1736-1813).

[20] Il barone Antonio Manno (1834-1918) fu uno dei massimi eruditi e studiosi del Piemonte, delle sue antichità e delle sue famiglie nobili nei secoli precedenti l’Unità. Il suo lavoro più importante resta Il Patriziato Subalpino. Notizie di fatto, storiche, genealogiche, feudali ed araldiche desunte dai documenti, in gran parte ancora inedito.

[21] Cfr. Storia della Monarchia Piemontese, I, 500.

[22] G. P. Clivio, Per un’edizione critica delle poesie piemontesi di Ventura Cartiermetre, in “Atti del XII Congresso internazionale di studi sulla lingua e la letteratura piemontese”, Quincinetto, 6-7 maggio 1995; Ivrea, s. d., pp. 97-184 (il tòni in questione si trova alle pp. 134-139; quello sul Bondisserea occupa invece le pp. 139-143).

[23] Dal francese colporteur, che significa “venditore ambulante di libri” (ma per estensione anche “pettegolo, maldicente, diffamatore”), viene il piemontese corporteur (poi anche italianizzato, nell’ambiente valdese, in “colportore”), che significa più precisamente “venditore (o anche diffusore) di libri non autorizzati dalla censura”: in ambiente valdese – come detto – indicava appunto l’incaricato di diffondere tra i cattolici, specie nelle campagne, libri di argomento religioso, ovviamente di provenienza protestante, in genere fatti arrivare da Ginevra o, più tardi, anche dall’Inghilterra.

[24] Come bene segnala il Sant’Albino (Dizionario…, cit., p. 1236) è lo “strepito di voci che fanno molti uccelli uniti insieme”; quindi per metonimia vale “rumore, baccano, strepito”. In italiano “gargagliata”.

[25] Creus o ancreus può essere (come qui) aggettivo, oppure sostantivo, oppure ancora avverbio. Come aggettivo vale “intimo, profondo”; come sostantivo “parte interna, profondità” (ant ël creus dla boschin-a: “nel folto del bosco”) e al femminile (creusa) vale “sentiero, viottolo”; come avverbio “intimamente, profondamente” (Sòn am toca ancreus: “ciò mi colpisce profondamente”; andoma pura ancreus a la cos-cion: “Andiamo pure al cuore della questione”). Il suo etimo è il francese creux (cavo), a sua volta dal celtico *krösu (caverna), da cui il latino volgare *crosum (concavo). Il termine si trova anche nel ligure: creuza (viottolo, sentiero) e il toponimo Vallecrosia. Sulla collina torinese esiste una strada denominata “strada della Creusa” (da leggersi col suono piemontese eu = ö): essa significa “strada stretta, sentiero” (nulla a che vedere, come pensano alcuni che ignorano le loro origini linguistiche pedemontane, con la moglie di Enea, citata nel II canto dell’Eneide di Virgilio).

[26] In italiano “zendado”: è un tipo di stoffa molto sottile. Vale quindi “velo”.

[27] Dal francese tricher: ora si usa la forma moderna trissé/ trassé (a seconda che si privilegi la grafia o la pronuncia del termine francese), sempre col significato di “imbrogliare”.

[28] Pòrta ’d Pò: a Torino, era il luogo della prigione.

[29] L’oloch è letteralmente l’allocco (o gufo selvatico), ma metaforicamente significa (come d’altronde anche in italiano) “sciocco, bonaccione”. Così anche il cioch del verso seguente è un uccello notturno, cioè il gufo. Oloch resiste anche nell’onomastica, specie nel Piemonte sud-occidentale, nella forma originaria del cognome Olocco. Quanto all’etimo di cioch che, per inciso, vale anche, come in molte altre parlate settentrionali, “ubriaco”, rinvio, per la complessità della questione, al REP (coll. 422sg.).

[30] Sotisa è francesismo (< sottise) per indicare “sciocchezza, errore”.

[31] Cfr. supra, nota 15.

[32] L’avvocato fiscale era, nell’ordinamento giudiziario del tempo, equivalente all’incirca al pubblico ministero.

[33] Presumibilmente l’autore della Mascarade.

[34] Un velato (e garbato) accenno ad una liaison tra la dama e il poeta o quantomeno ad una ammirazione amorosa dello scrittore per la gentildonna?

[35] La “carnagione”, il “colorito” [NdA].

 

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