«Match point» di Woody Allen. Uno specchio fedele del nichilismo ateo

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«Se Dio non esiste, tutto è permesso»

(Feodor Dostojevskij, I fratelli Karamazov)

di Carla D’Agostino Ungaretti

 

Sono una grande appassionata di cinema ma, poiché sono anche profondamente cristiana, ogni volta che vedo un film al cinema o in TV mi viene spontaneo verificare la presenza di Dio nella vicenda alla quale assisto. A volte la trovo, ma più frequentemente no. È pure vero che oggi le tracce di Dio sembra si siano perse, e non solo nel cinema: è il grande dramma dell’umanesimo ateo. La modernità vuole sostituire Dio con la scienza, la Fede con la tecnologia e crede di poter accantonare la Trascendenza e di trovare la salvezza percorrendo sentieri di totale immanenza che non sono certo in grado di assicurare il futuro esistenziale dell’uomo e di dargli la pace. L’arte, dal canto suo, ha sempre rappresentato una via privilegiata di ricerca del Trascendente e il cinema, grande protagonista dell’arte del XX secolo (che però nel terzo millennio sembra voler cedere il posto al WEB) è diventato il testimone privilegiato dell’uomo senza religione.

Proprio di questo parlavo giorni fa con un gruppo di amici cinefili come me, e il discorso è caduto su un pregevolissimo film di Woody Allen del 2005, che molti conosceranno perché viene riproposto spesso in TV, Match Point, splendidamente sceneggiato e diretto dallo stesso Allen e interpretato da un gruppo di ottimi attori di scuola anglosassone (che, a mio giudizio, sono sempre i migliori).

L’espressione inglese che funge da titolo è ben conosciuta dagli appassionati di sport perché nel linguaggio sportivo, credo soprattutto nel tennis, essa designa l’ultimo punto che aggiudica la vittoria nel “match”, ossia nell’incontro agonistico. Riassumo il più brevemente possibile la trama per chi non la conoscesse.

Povero e ambizioso, il maestro di tennis Chris (Jonathan Rhys Meyers) accetta la corte della ricca Chloe (Emily Mortimer) e il posto nella finanziaria di famiglia che gli offre il padre della ragazza, ma è attratto da Nola (Scarlett Johansson), ex fidanzata di Tom, il fratello di Chloe. Chris sposa per convenienza l’ereditiera, ma diventa anche l’amante di Nola e la situazione, già poco chiara, diventa ancora più drammatica quando Nola gli comunica di aspettare un bambino da lui e pretende che Chris riveli la verità a sua moglie e l’abbandoni per sposare lei. Rinuncerebbe Chris alla ricchezza e agli agi ottenuti senza alcuna fatica? No davvero! Allora decide di uccidere Nola pianificando con cura l’assassinio in modo che la povera ragazza sembri la vittima collaterale di una volgare rapina e non lo disturba affatto la circostanza che le vittime in realtà siano tre, perché è costretto a uccidere anche un’anziana e ignara signora, vicina di casa di Nola, per farla sembrare l’obiettivo teorico della rapina, e addirittura suo figlio, il bambino che Nola porta in grembo. Sbarazzatosi di questo increscioso fastidio, Chris potrà andare tranquillamente a teatro con sua moglie come se nulla fosse successo e uno scherzo del destino, una pura combinazione (il «match point» del titolo) farà sì che non sarà scoperto e il suo crimine rimarrà impunito.

Non è la prima volta che Woody Allen affronta il tema del delitto senza castigo – come abbiamo visto in altri suoi ottimi film come Ombre e Nebbie e Crimini e Misfatti – ma io ho sempre trovato strano che questo intelligente autore cinematografico (apprezzabilissimo nel suo lavoro al di là delle intemperanze della sua vita privata) ebreo attaccatissimo alla sua appartenenza a un popolo che tanto ha dato alla civiltà occidentale, si professi anche ateo lasciando trasparire il suo nichilismo da tutti i personaggi dei suoi film e vada ideologicamente (e così platealmente) contro quel Decalogo che fu elaborato proprio dai suoi Padri su ispirazione di Qualcuno, al di là della materia e della storia, che contrasse con il Suo popolo un’Alleanza eterna e irrevocabile.

Come spiega lui stesso nella prima parte del film, Chris crede che la vita non abbia scopo, che le cose accadano per puro caso, che la Fede sia soltanto un illusorio tentativo di attribuire un significato a ciò che non ne ha alcuno. Anche gli altri personaggi (Tom, Chloe, i loro genitori, Nola) sono dei miscredenti, anche se il loro atteggiamento non è radicale come quello di Chris; il loro è un ateismo pratico, proprio quello più diffuso nel nostro tempo: essi non si pongono il problema di Dio, vogliono vivere bene approfittando del fatto di appartenere a una classe privilegiata[1].

Chris è un bugiardo, capace di mentire e di tradire senza scomporsi affatto. E’ anche un egoista che pensa solo a se stesso; trova Chloe dolce e carina, la sposa ma non prova amore per lei. Non ama neppure Nola, per la quale sente solo attrazione sessuale, perciò non prova alcuno scrupolo a togliersela di torno – nonostante ella sia incinta di suo figlio e non voglia abortire, perché lo ha già fatto una volta in passato e ora prova una briciola di pentimento – quando capisce che lei è di ostacolo ai suoi piani futuri. E’ la filosofia del non senso: ognuno deve badare a se stesso e servirsi degli altri come e quando più gli conviene, perché nella vita umana o si travolge o si viene travolti. Se le cose stanno così, Dio non esiste come non esiste una morale assoluta, secondo la famosa frase di Ivan Karamazov: «Se Dio non esiste, tutto è permesso».

Può trovare ancora posto una molecola di umanità nell’anima di Chris? Temo di no.  Però dopo il triplice crimine Chris non riesce a dormire e nella sua notte insonne gli appaiono le ombre delle sue vittime che lo mettono di fronte al suo delitto, ma lui non prova pentimento o dolore per il suo tremendo peccato, prova solo un senso di colpa, che è cosa ben diversa: se avesse potuto fare altrimenti, lo avrebbe fatto, ma non aveva altra chance. Per lui non c’è redenzione; però nel dialogo finale con l’ombra di Nola, Chris afferma: «Sarebbe giusto che io venissi preso e punito, almeno ci sarebbe un piccolo segno di giustizia, una qualche piccola quantità di speranza di un possibile significato». Secondo me, questa frase denota, da parte di Woody Allen,  un innato desiderio di giustizia da un lato e, da un altro, la consapevolezza che ogni delitto meriti una giusta punizione.

Vedendo questo film mi è tornato in mente, per contrasto, Delitto e castigo di Dostoevskij, ma la somiglianza tra il romanzo e il film si limita al fatto che entrambi i protagonisti pensano che non esistano il Bene e il Male, ma solo autonomia e libertà assolute. Per il resto, Chris non è Raskolnikov e Nola non è Sonia. Raskolnikov si salva perché si pente, Chris non si salva perché non si pente, ma crede addirittura di essere giustificato nel suo triplice delitto quando ripete a Nola: «Uno impara a nascondere la spazzatura sotto il tappeto e andare avanti, altrimenti vieni travolto».

A questo punto tocca a me provare un leggero senso di colpa perché mi sento sfidata a spiegare perché a me, cristiana, questo film sia piaciuto molto, come in genere mi piacciono tutti i film di Woody Allen, nonostante egli rappresenti spesso personaggi che, dal punto di vista cristiano, sono una vera e propria personificazione del Male che, in questo caso, si annida subdolo e accattivante nell’alta società londinese. Anche in Crimini e misfatti un uomo ricco e colto – oltretutto ebreo come Allen, mentre Chris si presume sia di formazione cattolica, perché irlandese – si libera dell’amante, diventata invadente e insopportabile, uccidendola e facendola franca. Tuttavia in questo caso, il geniale regista trova il magico punto di fusione tra la tragedia e la commedia disegnando, in un perfetto equilibrio, la deriva morale in cui si trascina la società del nostro tempo. Questo non mi sembra si verifichi in Match Point: questo film è totalmente negativo e di un raggelante pessimismo di morte.

Perché allora mi sento di consigliarne la visione a chi non lo conosce? Perché, al di là del disfattismo morale di queste vicende, i film di Woody Allen rivelano sempre una straordinaria eleganza formale nella sceneggiatura e nei dialoghi, mai banali, una straordinaria lucidità nel rappresentare l’egoismo e il cinismo del nostro tempo, oltre al peso delle differenze di classe sociale, che ancora hanno la loro importanza nella nostra civiltà falsamente “democratica. Considerata la volgarità e la banalità che dilagano oggi nel mondo dello spettacolo, io penso che questi pregi non possano non essere onestamente riconosciuti da chi ama il cinema come spettacolo e come espressione del pensiero[2].

Sarà forse il fascino del demonio? Speriamo di no! Sono sicura invece che Dio può servirsi anche di quel vago senso di colpa che Woody Allen, nei suoi film, ammette possa allignare nei cuori umani e lo faccia crescere, se necessario, a dismisura fino a trasformarsi, nelle anime, in vera presa di coscienza e in doloroso pentimento per gli innumerevoli peccati commessi da questa nostra povera umanità smarrita e in quest’epoca che, quanto a crudeltà e cinismo, non ha nulla da invidiare alle epoche che l’hanno preceduta.

 

[1] Ad esempio, quando Chris parla della conversione di suo padre, che ha trovato Cristo dopo un incidente in cui ha perso l’uso delle gambe, Tom commenta: «Non mi sembra un granché come scambio».

[2] In questo senso io credo che nel XXI secolo il cinema batta il teatro nel descrivere da vicino il Bene e il Male (forse più il secondo che il primo) del nostro tempo. Il teatro, nonostante abbia un’esperienza e una tradizione più che bimillenarie, ora sembra avere il fiato corto al punto di andare cercando soggetti di ispirazione nel cinema, mentre nel secolo scorso avveniva il contrario. Le performance teatrali più seguite oggi sembrano essere quelle dei «one man show» di ispirazione televisiva.

 

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1 commento su “«Match point» di Woody Allen. Uno specchio fedele del nichilismo ateo”

  1. Concordo con Lei. Mi sento poi di sottolineare un altro aspetto alleniano che segna, per me in modo positivo, alcuni suoi film: nonostante il conclamato ateismo egli spesso si rivolge (come molti ebrei atei) al culto della “tradizione” ed alla malinconia del passato, segno (probabilmente) che la non presenza della fede nel trascendente sente la necessità di qualcosa che con questa fede perduta ha comunque molto di comune. Particolarmente evidente, direi, in “Radio Days” che, a mio modesto avviso, è uno dei suoi massimi capolavori.

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