Lettera al Direttore di Luca Gori

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Egregio Direttore,

conoscere la Sua opinione, riguardo alla «Ricchezza della Chiesa». È sotto gli occhi di tutti quello che sta accadendo in Vaticano: sacerdoti che abusano sessualmente delle bambine, consacrati attaccati ai beni terreni, con grave scandalo per i fedeli, come, ad esempio, nelle torbide vicende dello Ior oppure nelle voci che associano tale banca addirittura al traffico di armi!!

Tutti questi sacerdoti, che si macchiano di peccati così tremendi, se non si pentono sinceramente, ne risponderanno davanti a Dio! È molto comodo «predicare bene e razzolare male»!

Come può la Chiesa pensare di essere credibile davanti agli uomini, se lei stessa non è coerente con ciò che predica? È comprensibile, poi, che molti fedeli si allontanino!

I sacerdoti dovrebbero, come accennavo, cercare di vivere quello che predicano; dovrebbero, inoltre, educare e avvicinare i giovani alla Fede e non giudicarli o, peggio, scoraggiarli, quando cercano sinceramente di seguire un cammino cristiano. Dovrebbero, poi, predicare il Vangelo e celebrare le Messe non soltanto nelle chiese, ma anche nelle case e nelle famiglie. Gesù, infatti, ha detto: «è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre. […] Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità»[1]. Infine, dovrebbero vivere distaccati dalle ricchezze, affidandosi alla Provvidenza e traendo il loro sostentamento dalle offerte dei fedeli. «[…] predicate che il regno dei cieli è vicino. […] Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date. Non procuratevi oro, né argento»[2].

Desidero però, conoscere anche la Sua opinione sul problema della ricchezza della Chiesa e sapere se si trova d’accordo con me su quanto ho appena scritto.

La ringrazio per la Sua disponibilità!

Cordiali saluti!

Luca Gori

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Egregio Signor Gori,

i temi che Ella pone sono, a mio modesto modo di vedere, sintetizzabili in due grandi questioni: il rapporto della Chiesa con la ricchezza e la peccabilità/incoerenza dei membri della Gerarchia.

Innanzitutto, occorre distinguere tra la questione della legittimità del possesso, da parte della Chiesa, di ricchezze, intese nel senso più lato possibile, e quella del loro uso distorto e/o dei peccati e dei crimini compiuti per procurarsele; è di ogni evidenza che questa seconda questione rientra nel tema della peccabilità dei membri della Gerarchia, in quanto il problema non risiede tanto nel desiderio di denaro, quanto nei mezzi illeciti per ottenerlo.

Iniziamo dalla domanda fondamentale: è lecito alla Chiesa accumulare ricchezze su questa terra? E, ovviamente, ancora: è lecito farlo agli uomini di Chiesa?

La risposta alla prima domanda è senz’altro affermativa, ma con alcune puntualizzazioni. La Chiesa ha sempre fatto suo l’antico adagio popolare, secondo il quale «il denaro è un ottimo servo ed un pessimo padrone». Il compito fondamentale della Chiesa è chiarito, tra gli altri, anche in quel capitolo 10 del Vangelo secondo San Matteo, che Ella ha citato; sull’interpretazione di quel capitolo si gioca il cuore dello scontro tra la Chiesa e le sette pauperiste di ogni tempo.

La Chiesa ci spiega come, nel suddetto capitolo, Nostro Signore Gesù Cristo dia ai suoi discepoli i primi comandi in ordine all’evangelizzazione e come chiarisca la natura missionaria della Sua Sposa mistica. Il divieto a portare con sé oro, argento o monete varie non ha carattere pauperistico, ma è la richiesta di un atto di affidamento nella divina Provvidenza. Le sette pauperistiche, invece, ne danno una lettura sociale, facendone derivare divieto assoluto, per la Chiesa, a possedere, a qualunque titolo e per qualunque ragione, denaro e ricchezze: è il mito della cosiddetta «Chiesa povera».

Fin dalle sue origini, la Chiesa ha potuto disporre di beni e ricchezze, che le sono stati messi a disposizione dai fedeli, per porla in condizione di adempiere al suo compito evangelizzatore; e quanto ciò non sia mai stato ritenuto un ostacolo alla missione spirituale, ma un valido ausilio è dimostrato dalla stessa istituzione dei diaconi, vale a dire di persone addette espressamente all’amministrazione dei beni ecclesiali ed all’assolvimento dei doveri economici della Chiesa. «Cercate dunque, fratelli, tra di voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di saggezza, ai quali affideremo quest’incarico»[3]. Incarico, quindi, tutt’altro che spregevole e necessitante di virtù di Fede e di morale.

Il divieto evangelico, quindi, a procurarsi ricchezze prima di partire per la missione viene, fin dalle origini, interpretato come affermano gli Apostoli, in sede di creazione dei diaconi e, quindi, di soluzione del problema della ricchezza della Chiesa. «Non è giusto che noi trascuriamo la parola di Dio per il servizio delle mense»[4], dove, per «servizio delle mense», deve intendersi ogni attività materiale e, soprattutto, a carattere economico svolta dalla Chiesa, in quanto tale.

Alla Chiesa e, in modo particolare, alla sua Gerarchia è fatto espresso divieto di preoccuparsi, in via preliminare, dell’accumulo di ricchezza, perché ciò la distoglierebbe dalla sua finalità essenziale, vale a dire convertire tutti i popoli della terra ed amministrare loro i sacramenti, a partire, ovviamente, dal Battesimo. Questo non le ha impedito, fin dai primissimi anni, e non le impedisce di accettare elemosine, donazioni e lasciti, anche di particolare entità; queste liberalità sono consistite, nel corso dei decenni e dei secoli, anche in beni capaci di produrre, a loro volta, denaro e ricchezza; si pensi, a titolo di esempio, a terreni, immobili o imprese. L’accettazione di queste regalie non è mai stata considerata contraria al comando di Nostro Signore, purché i proventi e gli stessi beni fossero considerati unicamente come strumentali alla missione evangelizzatrice.

In risposta alla prima domanda, possiamo, quindi, concludere che la Chiesa non può adoperarsi per accumulare ricchezze, come, invece, può legittimamente fare, ad esempio, un’impresa, ma può e, entro certi limiti, deve accettare tutti i beni, anche materiali, che la Provvidenza le pone sul cammino ed ha anche il dovere di custodirli e farli fruttare, perché, in caso contrario, disprezzando i beni avuti per grazia, indirettamente disprezzerebbe Dio stesso, origine dei beni in questione.

Venendo alla seconda domanda (se i membri della Gerarchia possano accumulare ricchezze), dobbiamo distinguere tra coloro che hanno fatto voto di povertà, vale a dire tutti gli appartenenti ad ordini religiosi, ed i cosiddetti «secolari», cioè tutti gli altri.

Ai primi è vietato ricevere, personalmente, ogni tipo di utilità materiale, poiché l’accettarla sarebbe flagrante violazione del voto di povertà; al massimo è consentita tale accettazione all’ordine religioso di appartenenza, con una destinazione che deve conciliare i desideri del donante con l’esigenza di povertà dei singoli e, conseguentemente, il diritto-dovere della congregazione di disporre dei beni indipendentemente dalla volontà del religioso, che è stato causa dell’acquisizione del bene stesso.

Discorso più sfumato vale per i secolari. Essi, stricto jure, possono possedere beni e ricchezze, anche di dimensioni notevoli, poiché esse non sono in contrasto con lo stato clericale, ma essi, come la Chiesa nel suo complesso, non possono inseguire la ricchezza e/o ogni altro bene mondano, fini a se stessi, ma debbono asservirli alla loro missione spirituale.

La domanda ora, però, si sposta e, se vogliamo, si affina: i membri della Gerarchia possono accumulare ricchezze, sia pure per finalizzarle alla loro missione spirituale? La risposta è parzialmente affermativa, nel senso che è certamente loro lecito procurarsi gli strumenti, anche materiali, necessari per meglio adempiere ai loro compiti, ma rimane sempre cogente il limite esplicitato in materia dagli Apostoli: «Non è giusto che noi trascuriamo la parola di Dio per il servizio delle mense»[5]. Non basta, ovviamente, che la ricchezza sia finalizzata alla missione spirituale, perché essa non comporti il concreto rischio di distrarre l’uomo di Chiesa dal suo compito ed assorbirlo in un’attività materiale che, almeno sul piano interiore, dovrebbe essergli estranea. Discorso quasi analogo, sia detto per inciso, vale anche per il potere e gli onori: essi possono e, entro certi limiti, debbono essere ricercati quando sono riferiti alla carica che si esercita e, quindi, strumentali alla propria missione, ma divengono satanica tentazione quando sono riferiti alla propria persona.

Discorso, invece, completamente diverso deve essere fatto per la ricchezza e la magnificenza del culto e degli strumenti del medesimo: nessuna ricchezza, nessuna magnificenza può essere considerata eccessiva, se riferita al culto divino e, in particolare, alla celebrazione del Santo Sacrificio della Messa. Non è mai lecito impoverire le chiese ed il culto, neppure con la perfida scusa di devolvere l’eventuale risparmio a sovvenire alle esigenze materiali dei poveri: questo sentimento scaturisce dal cuore malvagio di Giuda, quando condanna lo “spreco” della Maddalena, che profumava con unguento preziosissimo i piedi di Nostro Signore Gesù Cristo. «Allora Giuda Iscariota, uno dei suoi discepoli, che doveva poi tradirlo, disse: “Perché quest’olio profumato non si è venduto per trecento denari per poi darli ai poveri?”. Questo egli disse non perché gl’importasse dei poveri, ma perché era ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro. Gesù allora disse: “Lasciala fare, perché lo conservi per il giorno della mia sepoltura. I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me”»[6]. Il pauperismo di chi sottrae a Dio ed al Suo culto, anche per «dare ai poveri», è degno solo dell’anima persa di Giuda!

Per quanto concerne, infine, il problema dello scandalo dato dai comportamenti immorali dei membri della Sacra Gerarchia, soprattutto se in posizioni di autorità, occorre grande equilibrio di giudizio. Premesso che la coscienza di ciascuno è giudicabile solo da Dio e, in parte, dall’interessato e che, conseguentemente, non possiamo mai parlare di peccati, in senso stretto, con riferimento alle altrui azioni, ma solo di azioni malvagie, è necessario ribadire il principio secondo il quale più una persona è, per qualunque ragione, autorevole, maggiore è la sua responsabilità per le colpe commesse, perché, oltre che delle male azioni, essa risponderà anche dello scandalo derivante dalla sua posizione di prestigio.

Detto questo, però, occorre sempre tenere distinto il piano morale da quello dottrinale e di Fede. Non bisogna cadere nell’errore protestante e, specialmente, calvinista di far derivare da un cattivo comportamento etico l’invalidità della dottrina professata da chi tiene un comportamento scandaloso o, che è la medesima cosa, pretendere l’assoluta coerenza etica da chi professa la verità. Da un punto di vista pratico, è assolutamente vero che i comportamenti disdicevoli di membri della Gerarchia tendono ad allontanare i fedeli dalla Chiesa, ma questo è un errore grave di chi si allontana. La coerenza etica è un dovere morale tanto più forte quanto la persona è in posizione di autorità, ma la sua violazione non deve e non può essere argomento per contestare la verità professata.

In conclusione, le colpe, anche gravissime, di cui si sono resi responsabili sacerdoti, vescovi e cardinali possono e, entro determinati limiti, debbono essere causa di sofferenza per i fedeli, ma non possono, razionalmente e cristianamente, creare dubbi di fede.

Mi permetta una piccola precisazione sul punto incidentale della Sua lettera, che recita: i sacerdoti «dovrebbero […] educare e avvicinare i giovani alla Fede e non giudicarli o, peggio, scoraggiarli, quando cercano sinceramente di seguire un cammino cristiano. Dovrebbero, poi, predicare il Vangelo e celebrare le Messe non soltanto nelle chiese, ma anche nelle case e nelle famiglie». Senza entrare nel dettaglio, per ovvi motivi di spazio, mi permetto di sottolineare come questi suggerimenti siano tutti orientati verso l’atteggiamento, proprio del Modernismo dominante nella Chiesa dopo il Concilio Vaticano II, di pretendere che l’Autorità vada incontro al subalterno senza cambiarlo: soprattutto in un’epoca come l’attuale, dove il concetto stesso di Autorità si è quasi eclissato, è necessario che la Chiesa docente imbocchi l’atteggiamento opposto, vale a dire quello di esigere dal fedele la dedizione al sacrificio e soprattutto all’umiltà necessaria all’essere corretti nei propri errori; un maestro che non giudica non insegna, perché non corregge. Compito della Chiesa non è quello di lasciare le persone come sono, ma di correggerle, in maniera sempre più esigente, fino ad apparire quasi incontentabile, ad immagine del Padre Celeste, che ogni «tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto»[7], come dice Nostro Signore Gesù Cristo.

 

[1] Gv 4,21-23.

[2] Mt 10,7-9.

[3] At 6,3.

[4] At 6,2.

[5] At 6,2.

[6] Gv 12,4-7.

[7] Gv 15,12.

 

 

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