Che cosa rimane oggi delle opere di Padre Kolbe?

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La tolleranza è indifferenza;

chi crede vuole che gli altri credano.

Noi siamo intolleranti.

(Domenico Giuliotti)

Rubrica di P. Amerigo Berti

 

I santi sono i nostri campioni, coloro che dobbiamo guardare per vivere sul serio la nostra vita cristiana. I santi sono gli esempi del Vangelo vissuto.

Un santo straordinario di questi tempi e per questi tempi è san Massimiliano Maria Kolbe (1894-1941). Tutti più o meno sanno come morì: ad Auschwitz, sostituendosi ad un altro e andando al suo posto nel cosiddetto bunker della fame, dove morì dopo circa due settimane di agonia, tra i canti e le preghiere.

Ma pochi sanno che cosa fece negli anni precedenti. La grandezza di Kolbe, infatti, appare evidente non solo nel modo in cui morì, ma anche nel modo in cui visse. Anzi, si può dire che la morte altro non fu che una manifestazione, un’appendice ultima di una scelta di vita.

Vediamo allora che cosa fece. Egli fondò l’associazione religiosa Milizia dell’Immacolata quand’era ancora seminarista, a 23 anni. Probabilmente gli stessi superiori non diedero peso alla cosa, pensando dovesse trattarsi di un gruppetto di preghiera di studentelli devoti, niente di più.

Dopo un inizio stentato, la vicenda prese piede, e i volonterosi “Militi” cominciarono a stampare un giornalino di collegamento, «Il cavaliere dell’Immacolata». Fecero le cose in grande: il primo numero fu stampato in 5000 copie e distribuito completamente. Di lì fu una vera esplosione: ogni mese le tirature aumentavano, gli iscritti aumentavano, le idee si moltiplicavano.

Kolbe pensava in grande: egli intendeva conquistare tutto il mondo all’Immacolata, convinto che se tutti si fossero consacrati alla Madonna (per lui vi era un solo titolo: l’Immacolata), tutto il mondo sarebbe tornato a Dio. Altro che semplice devozione. Scrive: «La nostra comunità non intende solo difendere la fede, ma con un ardito attacco, non badando affatto a sé stessi, conquistare all’Immacolata un’anima dopo l’altra, un avamposto dopo l’altro, inalberare il Suo vessillo sulle case editoriali dei quotidiani, della stampa periodica e non periodica, delle agenzie di stampa, sulle antenne radiofoniche, sugli istituti artistici e letterari, sui teatri, sulle sale cinematografiche, sui parlamenti, sui senati; in una parola: dappertutto sulla Terra».[1]

Che razza di programma!

Massimiliano Kolbe era un fissato, e lo dichiara egli stesso con fierezza: «Noi abbiamo una volontaria, amata “idea fissa”, ed è l’Immacolata. Noi viviamo, lavoriamo, soffriamo e bramiamo morire per Lei, e con tutta l’anima, in tutti i modi, con tutte le invenzioni, ecc., desideriamo innestare questa “idea fissa” in tutti i cuori» (pag. 117).

Kolbe non aveva alcuna paura di predicare in modo opportuno o inopportuno: il suo zelo era tale che voleva realmente tutti salvi attraverso l’Immacolata: atei, massoni, comunisti, indifferenti, di altre religioni. Il suo pensiero era l’esatto opposto di quello odierno per il quale ognuno può rimanere nel proprio credo, senza bisogno di convertirsi a Cristo, basta che si stia buoni e non si faccia del male a nessuno.

Fondò in Polonia una cittadella di frati che chiamò «Città dell’Immacolata». Arrivarono ad essere anche in 800. Lavoravano come matti dalla mattina alla sera per stampare il giornalino, in condizioni estreme, pregavano, erano contenti. Non tutti gli altri francescani giudicavano questi eccessi prudenti, ma padre Kolbe non si arrestava. «Il nostro compito qui è molto semplice – scriveva -: sgobbare tutto il giorno, essere ritenuto poco meno che un pazzo da parte dei nostri, e morire per l’Immacolata. Non è forse bello questo ideale di vita? La guerra per conquistare il mondo intero, i cuori di tutti gli uomini e di ognuno singolarmente, cominciando da se stessi» (pag.131).

Ad un certo momento pensò che ogni nazione dovesse avere una propria «Città dell’Immacolata» come centro di irradiazione per conquistare tutto il Paese a Dio. Pensò così in primo luogo al mondo asiatico. Partì per il Giappone. Viene così completata la prima parte del piano per la conquista del mondo all’Immacolata, dal momento che Cina, Giappone e India raccolgono insieme metà della popolazione mondiale. Scrive: «Vorrei aprire immediatamente un avamposto più consistente in India per tutte le lingue dell’India e a Beirut per la lingua araba (Arabia, Siria, Egitto, Tunisia e Marocco: cento milioni di anime) per le lingue turca, persiana, ebrea». Limiti, non ce ne sono: «Io penso che il vessillo dell’Immacolata verrà inalberato persino sul Cremlino e così via: in una parola Ella sarà veramente la Regina di ogni cuore e introdurrà in ogni cuore l’amore divino del Cuore di Gesù» (pag. 133).

Il fine è la conquista delle anime e il linguaggio è necessariamente militaresco, perché il nemico non sta a guardare: «Mi sembra che in ogni nazione debba sorgere una Città dell’Immacolata attraverso la quale l’Immacolata debba operare con tutti i mezzi, compresi quelli più moderni, perché le invenzioni dovrebbero servire in primo luogo a Lei e dopo per il commercio, l’industria, lo sport, eccetera; perciò la stampa e ora, perché no, anche le trasmissioni radio, i film e in genere tutto ciò che in qualsiasi tempo si potrà ancora inventare per illuminare le menti e per infiammare i cuori» (pag. 134).

Con questo spirito universale e furoreggiante, già stava pensando di approdare nelle Americhe per istituire le sue Città dell’Immacolata sia negli Stati Uniti che nell’America Latina, ma                                     cause esteriori glielo impedirono.

Kolbe qui appare il campione del proselitismo, del giusto e doveroso proselitismo. Gesù aveva dato il comando di andare in tutto il mondo e fare discepole tutte le genti, e san Massimiliano ebbe l’intuizione che questo sarebbe avvenuto tramite il Cuore Immacolato di Maria.

Proprio negli stessi anni in cui il santo polacco gettava questi semi, a Fatima la Vergine apparì ai pastorelli dichiarando che era volontà di Dio che si instaurasse nel mondo la «devozione al mio Cuore Immacolato». Stesso messaggio, stessa via.

Se si pensa all’odierno cristianesimo anemico da salotto per il quale ognuno può esprimere la propria idea da rispettare, accettando serenamente che ognuno poi rimanga ateo o pagano o nell’errore, v’è da rabbrividire. Un Kolbe da solo, colui che si firmava «mezzo pazzo per l’Immacolata», vale più di tanti odierni pseudo-religiosi che parlano di cristianesimo anonimo. Macché anonimo: qui tutto ha un nome preciso: Dio, l’Immacolata Vergine Maria, la salvezza delle anime, la vera carità.

L’espansione kolbiana fu straordinaria e inarrestabile. L’epilogo fu, giustamente, la vittoria della croce: misero, con il brandello della divisa di Auschwitz, condannato con l’unica colpa di essere un prete cattolico, egli prese la via del bunker andando ad accompagnare nove compagni disgraziati alla morte o, meglio, all’incontro con l’Immacolata. Non protestò, anzi, andò volentieri. Era questo il modo della conquista delle anime. Insieme ai condannati pregò, cantò, morì con un sorriso disarmante che terrorizzò gli stessi soldati.

Che cosa rimane oggi delle opere di Kolbe? Rimane Kolbe stesso. Un gigante. Uno che ha mostrato non solo il cristianesimo vero, ma soprattutto la via da percorrere oggi. E questa via ha un nome: l’Immacolata, l’Eucaristia, la croce.

 

[1] Ragazzini Severino, San Massimiliano Kolbe, Ediz. San Paolo, Cinisello Balsamo MI, 2016, pag. 114.

 

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