Ferruccio Ulivi di Borgo San Lorenzo

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Ferruccio Ulivi (Borgo San Lorenzo 1912 – Roma 2002) si laureò in Giurisprudenza a Firenze ed è stato Docente di Letteratura Italiana nelle Università di Bari, Perugia e alla «Sapienza» di Roma, dove terminò la sua carriera universitaria; poeta, scrittore, critico letterario e saggista. Si formò a Firenze, in particolare frequentando il gruppo di letterati che si riunivano al Caffé delle «Giubbe Rosse» e tra i quali troviamo Montale e Carlo Bo. Collaborò alle riviste «Letteratura» e «Campo di Marte» dirette, rispettivamente, da Bonsanti, Vasco Pratolini e Gatti. Nel 1941 si recò a Roma, dove lavorò, sotto Giulio Carlo Argan, al Ministero dell’Educazione Nazionale, poi Ministero della Pubblica Istruzione.

Nella prima parte della sua vita molte furono le sue opere di saggistica e i suoi importanti contributi su Manzoni, Tasso, D’Annunzio, Nievo, Petrarca, Tozzi, Carducci, Boiardo…

Esordì con una biografia su Federico Tozzi (Morcelliana – Brescia, 1945), poi pubblicò molte altre opere, tra cui citiamo Romanticismo di Ippolito Nievo (AVE – Roma, 1947), Settecento neoclassico (Nistri – Lischi, Pisa 1957), Il Primo Carducci  (Le Monnier – Firenze, 1957); L’Imitazione nella poetica del Rinascimento (Marzorati – Milano 1959), Il Manierismo nel Tasso e altri studi ( Olschki -.Firenze 1966), La Letteratura Verista (Nuova ER- Torino, 1972), Galleria di Scrittori  d’Arte (Sansoni – Firenze,1973).

Debutta nella narrativa a 65 anni e, in questo abbraccio senile alla Musa – vinse, tra l’altro, numerosissimi e importanti Premi tra cui «Il Campiello» – troviamo una sua necessità espressiva in un nuovo e più comunicativo linguaggio, le cui radici affondano in anni remoti. Lo spartiacque tra il “primo” e “secondo” Ulivi resta E le Ceneri al Vento (Mondadori 1977), dove in uno dei racconti (Lo Spettro) mette in scena un anziano Alessandro Manzoni tormentato da una rivelazione fattagli dalla madre morente (Tuo padre non solo secondo il nome, ma anche secondo la carne è don Pietro Manzoni)….

«Le Mani pure» (1979) è il secondo romanzo della “Nuova Stagione” dello scrittore mugellano e narra la tormentata vicenda di Bruto (che Dante cacciò nell’Inferno nella Giudecca dei traditori) e parla di una reciproca attrazione e repulsione  tra i due personaggi, una contrapposizione tra potere monarchico e ideale repubblicano. Poi ne «Le Mura del cielo» (1981) l’avventura umana e sovrumana di Francesco, dove l’Ulivi entra nelle dimensioni del sacro, ma senza essere ammaliato dalle insidie dell’agiografia; non dunque una biografia romanzata, come appare ne I Fioretti, ma il segreto di una lotta misteriosa e drammatica: Dio “bracca” Francesco senza tregua, per conquistarlo, e il “Poverello d’Assisi” si lascia conquistare al livello più alto della Santità e della “Follia evangelica”.

Del resto anche in «Come il tragitto di una stella» (ripubblicato, post mortem, nel 2005 nei libri a grande tiratura di «Famiglia Cristiana») abbiamo Giuseppe di Nazaret, personaggio appena accennato nei Vangeli – ampiamente “falsato”, invece dagli apocrifi –  e che Ulivi ci presenta come uomo “giusto”, ma pur sempre uomo. Un bellissimo romanzo introspettivo che racconta di una solitudine che ha saputo trasformarsi, misteriosamente, in una grande “impresa d’amore”…

Tra il 1991  e il 1993 l’Ulivi si dedica ancora  al “suo” Manzoni , con tre testi narrativi, due romanzi : «La Straniera» e «Tempesta di Maggio», poi «La quiete degli scrittori» (un racconto-dialogo con un don Lisander a colloquio con un sacerdote).

Certo al Manzoni Ferruccio Ulivi dedicò molte delle sue opere e dei suoi studi, in particolare abbiamo un primo racconto completo della vita dello scrittore lombardo con «Manzoni» (Rusconi – Prima edizione Milano, 1984):

«A pochi passi dal centro di Milano, qualche centinaio di metri da San Babila, di fronte al Naviglio, la casa di Via San Damiano, fregiata dal numero civico 20 mostrava di appartenere – come appartiene – alle strutture di una moderata dignità (…)correva l’anno quarto del secolo decimottavo .Donna Giulia Beccaria, sposata Manzoni, quando in quella casa ebbe il suo primo e unico figlio aveva ventitré anni

Ecco l’incipit dell’opera, un’immane e piacevolissima raccolta di testimonianze, di reminiscenze e memorie, di colloqui e immagini, con cui lo scrittore borghigiano traccia una magistrale ed esaustiva “vita” a tutto tondo del grandissimo scrittore lombardo. Come si legge nella presentazione del libro pubblicato da Rusconi : «La sua vita fu accompagnata da ricorrenti sospetti e maldicenze stimolati dalla benedetta mania di parlar male degli altri, sollecitati dalle sue stesse complicate cautele, dal suo volersi separare dalla gente, introverso e solitario: Quell’uomo che consumava il suo tempo nelle meditazioni a tavolino dello studio cittadino, o nella stanza stipata di libri a pianterreno a Brusoglio, sembrava sfidare la malevolenza dell’ambiente milanese. E ancor oggi dopo un secolo di irragionevole agiografia contrapposta a settaria denigrazione (…) ci domandiamo sconcertati se questo personaggio sia davvero un individuo d’eccezione». La  figura del Manzoni non ha mai avuto unanimità di giudizi.

Dunque al termine della lettura dell’opera manzoniana dell’Ulivi non troveremo una “sentenza”, ma una ricostruzione, attenta e paziente di quella che fu la sua vita, di quegli aspetti di questa vita apparentemente contradditori,  un’indagine rigorosa che scandaglierà non solo l’animo di “Don Lisander” ma anche lo sfondo storico che abbraccia i postumi della rivoluzione napoleonica  fino al compimento dell’Unità d’Italia.

E del resto nell’explicit dell’opera, quando Giuseppe Verdi si recherà a vedere la tomba di Manzoni al Cimitero Monumentale di Milano, Ferruccio Ulivi, seppur descrivendo l’omaggio del più grande musicista italiano al più grande scrittore italiano, non scioglie il nodo sul personaggio lasciando «ai posteri l’ardua sentenza»:

«Verdi stava ancora con la fronte sulla mano. La sosta si protraeva per un tempo incredibilmente lungo. Il custode si era immaginato che piangesse o apparisse in qualche modo turbato. Vide invece che la faccia aggrottata , dalla barba più biancheggiante che grigia, era, come poc’anzi, severamente immota. Semmai, sembrava  ancora più immerso nei pensieri . Era palese che un colloquio, con le emozioni che ciomportava, si verificava in modo del tutto privato tra i due, il morto e il vivo….» (cfr Ferruccio Ulivi in Manzoni, ed. Rusconi 1985).

A chi conoscesse solo epidermicamente l’Ulivi potrebbe venir voglia di fargli dire, a proposito del “suo” Alessandro Manzoni, parafrasando il Leopardi: «Ahimè  quanto somiglia il tuo costume al mio…».

E invece questo grande studioso, questo perspicace critico, questo scrittore elegante ed aristocratico che amava la solitudine, era dotato di grande calore umano – posso affermarlo essendo stato nella sua giovinezza amico di mio padre e avendo conosciuto personalmente molti studenti che frequentavano le sue lezioni e che, con lui, si laurearono decantando le doti di “Maestro” e amico – e ben ce ne delinea il carattere Marco Beck:

«(a proposito dell’Ulivi) sorge spontaneo un interrogativo: condivideva anch’egli nella carne e nello spirito l’inquieta, a volte angosciosa, a volte amorosa solitudine dei suoi personaggi (da Bruto a Francesco, da Manzoni a Tasso, da Giuda a Giuseppe) di fronte agli imprescindibili disegni di una Volontà onnipotente che sembra prevaricare la libertà di coscienza umana? Un’impressione di solitudine esistenziale nasceva, in effetti, andando a incontrare Ulivi nella “cella” del suo studio foderato di libri e quadri, nel Sancta Sanctorum della sua silenziosa abitazione romana. Ma ben presto l’affabilità del suo eloquio, la premurosa ospitalità, l’amichevole pacatezza dei gesti facevano comprendere che, se di solitudine si trattava, era di qualità essenzialmente intellettuale, finalizzata alla concentrazione sui testi altrui e all’elaborazione dei propri: viveva un dialogo incessante con i viventi e con gli immortali. Feconda solitudine di professore e di scrittore, dunque. Con una punta anche, di assorta aristocratica solitudine spirituale che avvicinava Ulivi, sub specie fidei (…) al Manzoni.»

 

Ulivi morì a Roma, a novant’anni, donando la sua immensa e preziosissima biblioteca al Gabinetto Viesseux di Firenze, dove è stato creato un fondo a suo nome. È sepolto nel cimitero di Poggio Maiano, località dell’Alta Sabina che amava e che alla sua figura ha dedicato le Scuole Superiori. È proprio il caso di dirlo «Nemo propheta in Patria»… infatti Ulivi mai è stato ricordato a Borgo San Lorenzo, il suo paese natale, nel “verde Mugello”, paese di cui peraltro il grande scrittore conservò sempre un nostalgico e buon ricordo. Ma lo scrittore mugellano ebbe un torto per i rossi amministratori della sua terra: non si piegò mai al conformismo vigente nei così detti salotti del “culturame” radical chic… si gloriò sempre di essere un cattolico in ogni atto della sua vita. Per questo nel suo paese – dove hanno eretto un monumento a un cane – non c’era e non c’è tuttavia posto per i “grandi”… ne sanno qualcosa lo scrittore Tito Casini, il Cardinale Antonio Bacci e il più grande musicista del XX Secolo: il Cardinale Domenico Bartolucci.

 

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