L’assedio di Torino del 1706 nel poema “discordato” di Francesco Antonio Tarizzo

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Lingue, culture, valori

Dopo i Sermoni subalpini (fine sec. XII-inizio sec. XIII) le principali testimonianze della lingua piemontese sono quasi esclusivamente di carattere tecnico-documentario: testi legislativi, sentenze, testi grammaticali, proverbi e dicta sentenziosi, ordinati e via di seguito[1]. Fanno eccezione pochi testi letterari, per lo più di poche righe o lacunosi, tra i quali il più lungo e interessante è la «Canzone per la presa di Pancalieri» del 1410[2].

Nel secolo XVI abbiamo poi l’Opera jocunda dell’astigiano Giovan Giorgio Allione, ma questi testi scenico-farseschi sono soprattutto un esempio, a livello socio-linguistico, della mescolanza delle lingue usate allora in una parte specifica della regione (Asti, all’epoca ancora possedimento francese degli Orléans), cioè astigiano, toscano, milanese, francese e latino dei dotti; inoltre essi obbediscono a stilemi propri della letteratura popolare e comico-farsesca del tempo (alla Ruzante, per intenderci), più attenti a suscitare una risata facile, crassa e volgare sulla bocca degli spettatori che non ai valori della cultura e della civiltà.

Arriviamo così al Settecento, primo vero e proprio secolo interamente segnato dalla volontà di scrivere, da parte dei dotti o al massimo dei semi-dotti, opere letterarie di un certo qual livello che, espresse nella lingua d’uso comune (la koinè piemontese), potessero essere lette (o ascoltate) e gustate sia in qualsivoglia parte dello stato sabaudo (escluse forse le terre di recente acquisto: alto e basso novarese, casalese-alessandrino, Lomellina) sia da fruitori appartenenti a classi sociali anche molto diverse tra loro.

L’anticipazione di questa situazione cultural-letteraria è rappresentata da 6 tòni (canzoni) anonimi satirici torinesi di fine Seicento[3] e dalla commedia Ël cont Piolèt, del marchese di Entraque, Carlo G. B. Tana (1649-1713), scritta, in forma bilingue in quanto alcuni personaggi parlano italiano altri piemontese, e rappresentata a corte negli ultimi anni del secolo XVII, ma pubblicata solamente nel 1784 da Guido Gaschi di Fossano (1727-1804), che applicò a questo testo le regole di grafia elaborate dal medico di corte Maurizio Pipino nella sua Gramatica Piemontese (Torino 1783).

A inizio secolo XVIII, in occasione di una situazione storica di estrema gravità, cioè l’assedio gallo-ispanico alla città di Torino (1706) nel corso della guerra di successione spagnola (1700-1714), troviamo il primo testo piemontese scritto del secolo, cioè il poema epico L’Arpa discordata del sacerdote Francesco Antonio Tarizzo.

Dopo vari ondeggiamenti all’inizio del conflitto, il duca di Savoia Vittorio Amedeo II nel 1703 aderì decisamente alla Lega di Austria, Inghilterra, Olanda contro i gallo-ispani di Luigi XIV, il Re Sole. La guerra fu combattuta in Spagna, in Germania, in Tirolo, in Lombardia, in Piemonte. Per eliminare le forze piemontesi dal gioco, i francesi decisero per il 1704 l’assedio di Torino, ma alterne fortune belliche lo fecero procrastinare fin quasi all’autunno del 1705, dando tempo così al Duca di rafforzare ed estendere le difese, munire ed approvvigionare la città, che allora aveva circa 46.000 abitanti. Data la stagione inoltrata, nell’autunno del 1705 le truppe francesi destinate all’impresa sotto il comando del La Feuillade, dopo una ricognizione della piazza e una minaccia nei dintorni, si ritirarono verso Asti nei quartieri d’inverno.

Proprio con questo episodio appena narrato ha inizio il poema intitolato L’arpa discordata[4], opera di un sacerdote canavesano, probabilmente originario di Favria, cioè, del quale abbiamo scarse notizie biografiche. Maestro di scuola, nato presumibilmente verso il 1670, ha dato prova di sé come narratore più elaborato, e non privo di efficacia, nella pacata redazione in prosa italiana del suo Ragguaglio istorico dell’assedio, difesa e liberazione della città di Torino. 1707.

In questa “filastrocca”, invece, tutto è rivissuto nel ritmo e nello spirito di un “cantastorie” testimone autoptico, ancora vibrante della recente partecipazione a fatti gloriosi, ma talora già distaccato e moraleggiante. Nel testo troviamo comunque, come motivo di fondo, una coralità civica, una “civiltà cittadina”, non disgiunta da un atteggiamento di rispetto ed obbedienza quasi affettuose rivolte al Duca ed alla sua casa, che danno un loro timbro e un valore particolare al poemetto. È l’umanità colta nei suoi moti e nei suoi comportamenti di sempre, mutevoli solo per diversa presentazione di tempi: qui, in uno sfondo prettamente torinese.

Il testo, pubblicato senza data, ma visto il suo carattere di “réportage” certamente non molto dopo i fatti narrati[5], è costituito da 1.812 versi rimanti a distici che si snodano in serrata cadenza, senza eccessive preoccupazioni metriche (l’arpa è detta appunto discordata) o letterarie, mirando a dare una rapida successione di quadri, di descrizioni, di casi del grande assedio di Torino del 1706, che fu azione militare di importanza europea, ma anche fatto civile, il quale vide impegnata a fondo, coi combattenti, tutta la popolazione[6]. Episodi comici e luttuosi, di eroismo e di vita quotidiana, curiosa e popolare, sui quali l’A. non si sofferma che il tempo necessario per una rapida rievocazione, per una pennellata satirica, per un sorriso indulgente o commosso, per uno scatto di sdegno o di amarezza. Alcuni riferimenti a persone allora certo ben note, o a episodi labili della cronaca quotidiana, si sono sottratti alla nostra possibilità di documentazione.

 Dopo l’episodio iniziale narrato supra, la seconda parte del poema si occupa degli avvenimenti a partire dal maggio del 1706, quando cioè le forze gallo-ispane iniziarono l’opera ossidionale, ad ovest, da Alpignano a Collegno, poi verso la Dora Riparia e la Stura di Lanzo, aggirando anche, ad est, la collina, munita di difese e di fortini, tanto da investire a poco a poco tutta la città e rendere effettivo il cerchio dell’assedio con circonvallazioni, trincee, parallele, gallerie, brecce e ridotti.

Quando già il cerchio stava per chiudersi, la famiglia ducale fu trasferita a Cherasco e poi a Savona. Il 18 giugno Vittorio Amedeo Il uscì di città con un corpo di 3.000 cavalieri per tenere i collegamenti col paese, per molestare dall’esterno gli assedianti, disturbarne i movimenti, intercettarne le colonne, e per mantenere i contatti col cugino Principe Eugenio di Savoia, comandante delle forze imperiali, che dal Tirolo manovrava per sboccare in Lombardia contro il Vendôme, comandante supremo francese, ed aprirsi il passo verso il Piemonte. Il maresciallo D’Aubusson, duca de La Feuillade (nel poema La Fojada), che comandava l’attacco a Torino, lo inseguì invano verso Cherasco, Fossano, Cuneo, Saluzzo, ma Vittorio Amedeo riuscì sempre a liberarsi e cercò rifugio, manovrando, agli sbocchi delle valli valdesi. Il La Feuillade allora rientrò a Torino per incontrarsi col nuovo comandante supremo francese, duca d’Orléans. Viste inutili le sue fatiche, anche il generale D’Aubeterre, lasciato a Luserna contro il Duca, abbandonò l’impresa: e tutte le forze francesi si concentrarono per l’assedio, seguendo le nuove direttive date in un gran consiglio di guerra, l’8 luglio, dall’Orléans.

L’assedio durò fino al 7 settembre, dopo che il principe Eugenio di Savoia, superate le forze francesi, si era riunito ai primi di settembre a Carmagnola col cugino Vittorio Amedeo[7]. Concertato l’assalto, la battaglia di Torino fu combattuta il 7 settembre. Anche gli assediati, pur sfiniti da quattro mesi di dure prove, con valorose ed efficaci sortite e tiri di artiglieria contribuirono alla vittoria comune.

La lingua del poemetto è il torinese quotidiano coevo ai fatti narrati[8], ma non mancano voci dotte, francesismi ed italianismi, dovuti, questi ultimi, in genere più a necessità di rima che non di sostanza. Ciò che più ci interessa è comunque la ricchezza del lessico che, in piemontese come in altri dialetti del tempo, si fa apprezzare per la precisione determinativa delle definizioni, molto più ricca ed articolata rispetto alle lingue di oggi (italiano compreso) che, per la cosiddetta “legge di economicità” delle lingue, tendono a ridurre il numero (e la varietà) dei termini, pagando tale atteggiamento con una maggiore superficialità e sciatteria definitoria[9].

Una delle caratteristiche più evidenti della lingua del Tarizzo è l’uso del passato remoto (fur fu; fer fece; geter gettò; mancher mancò; ënder andò; tornero tornarono; fero fecero; pijero presero; ecc.) che già alla fine dello stesso secolo il Pipino nella sua Gramatica Piemontese (1783) rifiuta, mentre abbonda ancora nelle poesie dell’Isler (1699-1778) e del Balbis (1737-1796), mentre oggi è totalmente abbandonato[10].

L’ARPA DISCORDATA NELLA PRIMA E SECONDA VENUTA DEL SIG. DUCA DELLA FOGLIADA SOTTO TORINO

 Autunno 1705. Prime avvisaglie dell’approssimarsi dei francesi a Torino sotto il comando del La Feuillade (La Fojada). Parte della popolazione si mette in allarme, fa fagotto e vuole abbandonare la città: scene di traffico, di comica confusione, di reazioni individuali. Donne con pentole e carabattole e bottegaie: umane debolezze e sdegno dell’Autore [vv. 1-46]

 

A l’é pur vënù ël cas

Al me caval Pegas

Dë parlé dë la tragedia ën sucint

Dë l’ann milésim set centésim quint:

Dë pijeme ampò dë spass

Esponend ël tremolass

D’una man dij turinèis

A l’ariv dij fransèis

Vers Civass e la montagna[11],

pais antich de cocagna.

Oh Dio! chi podrìa raconté

La gran furia dë mëné ël pe.

Tut ël mond era dë tròt,

Për embalé ij sò fagòt,

Camise e lingiarìa,

Con la pëcita famija,

A dé partì a la mojer[12],

Chi për le bande dë Cher,

Chi për Carmagnòla,

Al Mondvì e Salussòla.

Ën soma ij pì gotos

Dëventavo generos.

Non së vëddìa che dë calessant

Sù e giù andé girant

Con la patron-a e la creada[13]

E sëmijava che la Fojada,

A-j caminass daré

Për spareje qualch morté:

Arcomandandse ad àuta vos

Al protetor dij pauros,

Për tute quante le vënùe

Së vëddìo dë caròsse cornùe[14]

Carià dë servente e d’arvendiòjre[15]

D’aramin-e, cassuj e scumòire[16];

E më sautavo mile rabie

Dë vëdle ancor ën cole gabie

Con dë gran crëste ën testa,

Da porté ël di dë festa,

Con dë mantò[17] fàit a bon-a man

A garòfo e tulipan.

N’é-lo pà una vërgògna,

Vende ël lard e salam dë Bològna,

E ’l giambon e la vëntrësca,

Lingue salà e sautissa frësca[18],

E volèj giré com tante masche[19],

Con tante pompe, tante frasche?

 

È ormai venuto il momento al mio cavallo Pegaso di parlare in sintesi della tragedia dell’anno 1705, di prendermi un po’ di spasso esponendo la garn paura di un manipolo di torinesi all’arrivo dei francesi verso Chivasso e la collina, antico paese di cuccagna. Oh Dio ! Chi potrebbe raccontare la gran furia di muoversi. Tutta la gente andava al trotto, per imballare i suoi fagotti, camicie e biancheria con la famigliola, diedero sistemazione alle mogli, chi dalle parti di Chieri, chi per Carmagnola, a Mondovì e a Salussola. Insomma i più gottosi diventavano generosi. Non si vedevano se non vetturali andar girando su e giù con la padrona e la domestica; sembrava che La Feuillade gli camminasse dietro per sparare qualche mortaio: raccomandandosi ad alta voce al protettore dei paurosi, per tutte quanti i corsi si vedevano carri tirati da buoi carichi di serve e venditrici di paioli, mestoli e schiumarole; e mi prendevano mille rabbie nel vederle ancora in quei frangenti con delle grandi creste in testa, da portare nei giorni di festa, con delle mantelline di buona fattura con ricamati garofani e tulipani. Non è una vergogna vendere il lardo e il salame di Bologna, e il prosciutto e la pancetta, lingua salata e salsiccia fresca, e voler girare come tante streghe, con tanta pompa e tante sciocchezze[20].

Tipi e macchiette:

donne che piangono, donne che ridono [vv. 47-78]

una merciaia poco attraente con tutti i suoi tesori [vv. 79-90]

 

Da lì a pòch i vëddo a vënì

Un mostass, ma proibì:

Una fomna vestìa da deul

Ch’as në vënìa dë sora a ’n bëstieul

Con dacant doi gran sachëtte

Pien-e dë scàtole e dë cornëtte[21],

Dë sortot e dë brassiere,

Piesse, corsèt e menagere,

Fissù, sofocant e mignon,

Badròbe, colarëtte e mancion[22],

Che l’ero tut ël patrimòni

De cola bruta dëmòni

 

Dopo poco vedo arrivare una brutta faccia, ma proibita, una donna vestita a lutto che se ne arrivava sopra ad una bestiola con vicino due gran sacchetti pieni di scatole e di cartocci, di soprabiti e di giustacorpi, pettorine, corsetti e grembiuli, scialli, colletti e merletti, mantelli di gala, baveri e manicotti, che erano tutto il patrimonio di quella brutta diavolessa

Donne devote che pregano [vv. 91-102]

Appena fuori città, a San Salvario[23]. Spettacoli di confusione; apostrofe dell’Autore contro la pusillanimità di certi fuggiaschi che in città erano soliti fare i gradassi e ora cercano i viottoli nascosti: gente degna di portar sottane, non baffi. [vv. 103-124]

 

Giunt ch’i fur a San Salvari,

Quanti còfo e quanti armari;

E ben che fuss ën di dë festa

Së scapavo da la tempesta

Spadassin dë prima riga,

Gent sensa pensé e sensa briga,

Gent da pòch e gent da nent[24]

Co’ij capej bordà d’argent[25];

E pijavo le viëtte

Com tante fomnëtte,

E crëddo che da për tut

A temèisso quàich còsa ’d brut.

Oh là, Signori Mëssiù,

Taja caden-e[26], zerniblù[27]:

Dov é la glòria e l’onor

D’artiresse vers Cavour?

Ma andevne pur, gent da cagarela,

Ëndegn dë porté la cotela.

Andeve a sconde ënt un përtus

Con la ròca e con ël fus;

E lëveve coj barbis,

Che vë stan sot le naris

 

Giunto che fui a San Salvario, quanti cofani e quanti armadi; e benché fosse un giorno di festa se ne scappavano dalla tempesta certi spadaccini di prima fila, gente senza pensieri e senza preoccupazioni, gente da poco e gente da nulla, con il cappello bordato d’argento; e prendevano le strade secondarie come tante donnette; e credo che dappertutto temessero qualcosa di brutto. O là, signori messieurs, tagliacatene, rinnegadio: dov’è la gloria e l’onore di ritirarsi verso Cavour? Ma andatevene pure, gente cagasotto, indegni di portare il coltello. Andatevi a nascondere in un buchetto con la rocca e con il fuso; e toglietevi quei baffi che vi stanno sotto le narici

Si chiude l’episodio con lo schizzo di un personaggio che richiama Azzeccagarbugli [vv. 125-144]

Il mondo della plebe minuta: popolani, staffieri, serve che sospirano d’amore; recriminazioni contro gli austriaci che ritardano l’aiuto e nulla fanno per affrettarsi [vv. 145-164]

Svenimenti: uso della “triaca”; non più le passeggiate al Valentino. I ceti sociali uguali davanti alla sventura [vv. 165-186]

 

Che spetàcol! che comedie

Vëddi a ori tante sedie[28]

Ën su ën giù ën sa ën là

Për le piasse e le contrà,

Pien-e ’d fije ch’a le pòrte

As së crëdìo d’esse mòrte!

Ij vasèt dë la triaca[29],

Ch’a portavo ënt la biasaca,

A serviro apont dë mana

Contra ’l mal dë la pavana[30].

L’era àutr ch’a la matin

Andé a bèive[31] al Valentin

A brassëtta dij sfojor[32]

Për passé ’l cativ umor;

Con bonèt e paladin-e[33],

Guarnidure sovrafin-e,

Cuj ’d Paris[34] e bocle ’d diamant

E con coe strassinant!

Ben e bin ën scuffie da neuit,

Sensa pensé a la taja o al deuit

S’ënvlupavo ën serte serplin-e[35],

Che parìo dë capussin-e

[…]

 

Che spettacoli! che commedie veder correre tanti calessini in su in giù in qua in là per le piazze e le vie, pieni di ragazze che alle porte credevano di essere morte! I vasetti della “triaca”, che portavano nella bisaccia, servirono proprio come manna contro il male delle tremarella. Altro che al mattino andare a bere al Valentino sotto braccio con gli innamorati per far passare il cattivo umore; con berretti e boa di pelliccia, guarnizioni sopraffini, imbottiture posteriori di Parigi e fibbie di diamante e con code a strascico! Ben bene in cuffie da notte senza pensare alla taglia o all’eleganza si avviluppavano in certe tele da imballo, che sembravano delle monache cappuccine

Il mondo degli ignoranti, babbei presuntuosi; dei “bene informati”; dei “si dice”, dei disfattisti; ma la “cascina” (cioè lo stato) è ben governata da un buon “massaro” (il Duca), capace di dare il fatto loro anche ai francesi [vv. 187-232]

 

Ën mes la piassa dë San Gioann

Së congregavo ij barbagian,

Con na man dë novelista

De longh nas e curta vista

Ën sostansa ’d tabaleuri

Pì gròss ’d coj dë San Gieuri[36],

E për mia fé in sò pa com

I ni fasa ancor ël nòm

Ma son tant conossù

Ch’a sarìa temp perdù.

[…]

Ël nòstr mond, che sin al di d’ògi

Së va guadagnand j’elògi

Sostenend con bon-a min-a

Una pòvra cassin-a

Governà da un bon masoé

Che sà a maravija ël sò mësté,

Për dé dë dolorose lession

A coj zernicoton,

Che ’s avansavo a tre a tre,

[…]

Ma fur fortun-a che sul pì bel

Arivass l’avocat Comell

Che fer bassé ël cachèt[37]

A quej quatr fransesèt

Strapassandje pì che ’d can

E mancher pòch ch’a dèiss man

A na daga ben lusent,

[…]

 

In mezzo alla piazza di San Giovanni si riunivano i barbagianni, con un buon gruppo di narratori dal naso lungo e dalla vista corta, in sostanza degli scemi più grossi di quelli di San Giorio, e in fede mia non so perché non ne faccia anche il nome: ma sono talmente conosciuti che sarebbe tempo perduto […] Il nostro popolo, che sino ad oggi si va guadagnando gli elogi sostenendo con buona fierezza una povera cascina governata da un buon massaro che conosce a meraviglia il suo mestiere, per dare lezioni dolorose a quei rinnegadio che avanzavano a tre a tre […] Ma fu una fortuna che sul più bello arrivasse l’avvocato Comello che fece abbassare le arie a quei quattro filofrancesi, strapazzandoli più che se fossero cani, e poco mancò che mettesse mano a una daga luccicante […]

Notizie confortanti smentiscono i “francofili”, ma è difficile far tacere le voci e le notizie dei pacifisti, di quelli che hanno letto i giornali stranieri, degli strateghi da tavolino che trinciano giudizi sulle forze in movimento [vv. 233-276]

L’incertezza della popolazione, con l’alternarsi di speranze e delusioni. Fermezza esemplare di Casa Reale. I francesi, per l’avvicinarsi dell’inverno, rimandano l’idea di investire la città e si ritirano verso Asti: sollievo generale [vv. 277-326]

13 maggio 1706. Ritornano i francesi e si apprestano all’assedio. La popolazione accorre sui bastioni. Episodio di valore di un ussaro che da solo va ad uccidere un ufficiale nemico: il colonnello De La Ferrière. Gli ussari, terribili e baffuti, con azioni volanti, come uccelli da preda, disturbano i movimenti dei nemici [vv. 327-368]

I manovali francesi scavano fossati e portano avanti le linee di circonvallazione. Attacchi di disturbo degli austro-piemontesi, attacchi a sorpresa e scaramucce al Parco vecchio, a Cavoretto, a Lucento. Bravura di singoli e tiro dai fortini. Il poeta se la gode, seguendo le azioni con il cannocchiale [vv. 369-450]

L’assedio si precisa: movimenti di truppe, di artiglierie, di munizioni. La città si rafforza e il morale è alto per la fiducia nei capi. I francesi, sotto il comando dello Chamillard, distruggono gli edifici e le cascine attorno alla città. Come la statua di Nabucodonosor, dai piedi d’argilla, anch’essi crolleranno e la loro condotta feroce si ritorcerà contro di loro stessi. La caduta di Barcellona, persa proprio in quel torno di tempo dalle loro forze in Spagna, preannuncia che anche a Torino avranno la sorte meritata, predetta del resto anche dall’eclissi del sole (Roi Soleil), che ha lasciato brillare la costellazione del Toro [vv. 451-524]

L’assedio stringe ora la città. Sotto le bombe francesi la Real Casa si ritira a Cherasco. Si allontana anche il duca Vittorio Amedeo alla testa di un corpo volante di 3.000 cavalieri col quale batterà le campagne alle spalle delle linee assedianti, in attesa di congiungersi col cugino, il principe Eugenio. Sue mosse varie: i francesi condotti dal La Feuillade prima, poi dal Generale d’Aubeterre, si lanciano all’inseguimento e tentano di intercettarlo: da Fossano a Mondovì, a Cherasco, Ceva, Saluzzo, Luserna [vv. 525-580]

Scontri di colonne. Mosse ingannatrici del duca che sfugge ai nemici. Scornati, i francesi ritornano a Torino. Parole commosse dell’A. sul rapporto tra la Città ed il suo Signore, il Duca [vv. 581-620]

 

Con tut lò l’era bin trista

La Sità, avend pers dë vista

Ël sò car e bon Patron,

Ël qual però ënt st’ocasion,

Bin ch’da chila fuss absent,

A l’é sempre stàit present

Con fé dë se stess un ripart

Për j’Alman e ij Savojart.

 

Con tutto ciò era ben triste la Città, avendo perso di vista il suo caro e buon Signore, il quale però in questa occasione, sebbene fosse lontano da lei, è sempre stato presente facendo di se stesso una difesa per gli Austriaci ed i Savoiardi.

Sortite degli assediati a disturbare gli apprestamenti nemici: ne seguono scontri sanguinosi. Muore il Barany, comandante degli Aiduchi (Croati), ma un suo soldato lo vendica. Vengono presentati il generale Virico Daun, comandante supremo degli austro-piemontesi, il marchese di Caraglio, governatore della città, il conte de la Roche d’Allery, governatore della Cittadella: essi, instancabili, ispezionano, provvedono, rincuorano i cittadini e animano i soldati, mantenendo il buon ordine [vv. 621-670]

 

Ch’a sia vèi: sul bon dël di

Seurt fòra ’l Capitan Baranì[38],

Ël difensor dë Castagné,

A la testa d’una man ’d grivoé

Che son butasse a dé ’d bon bòt

Ënt le trincere ai Cravòt[39],

E n’han mënà na quaranten-a

A sposeje a la caden-a[40].

 

Ed è vero: a giorno fatto esce il Capitano Barany, il difensore di Castagneto, alla testa dei suoi arditi che si son messi a dare dei bei colpi nelle trincee ai Francesi, e ne hanno portato una quarantina legati con le catene.

Bombardamento della città; i tiri, mentre poco danneggiano i baluardi, cadono sulla città come per spaventare i civili. Inutile cercare scampo, a poco servono i ripari. Scherzi delle palle e confusione inevitabile [vv. 671-714]

 

Orsù i më sento a l’orija

Ël tron dë la batarìa;

E su l’alba de San Giovann,

Ël di dij nòstri afann

A comensé la patoja

Dë coj bombardé dë la doja[41]

Con le continue fale

Dë tante gròsse bale,

Sensa toché un neo

Ël bastion dël Beà Amedeo,

Le contraguardie e col dë San Morissi;

E parìa quasi un cert vissi

Dë rende ij turinèis confus

Dentr le ca con dë gran përtus:

 

Orsù, mi sento all’orecchio il tuono della batteria; e sull’alba di San Giovanni, il giorno dei nostri affanni a cominciare la confusione di quei bombardieri da niente con le malefatte continue di tante grosse palle, senza toccare per un nulla il bastione del beato Amedeo, le contro-guardie e quello di San Maurizio; e sembrava quasi un certo vizio di render confusi i torinesi dentro le loro case con dei gran buchi:

Vengono emanati ordini e provvedimenti precisi: togliere le materie infiammabili, mettere al sicuro derrate e provvigioni. Difese e ripari per le case: le più esposte vengono svuotate di suppellettili, provviste e arredamenti. Si spostano i mercati verso il Po, fuori del tiro delle artiglierie. Confusione pittoresca. Nelle zone meno battute si creano sistemazioni provvisorie, in conventi, sotto i portici [vv. 715-782]

 

Ëntratant dà fòra n’órdin

Che l’é stà càusa ’d gran dësórdin:

Ch’a së portèiss via ’l comestìbil

Con tut lò ch’l’é combustìbil.

Chi peul dì sì ij gran papé

Ch’a së son vist prest a ëmbalé,

Codicil e j’instrument,

Le scriture e ij testament,

Le orassion e le poesìe,

Le memòrie e l’àitre ghënìe[42]

E ’d legal e ’d medisin-a

Che son portasse su la colin-a!

Le madame co’ij monsù

A corìo tùit sù e giù

Për Turin a consulté

Con ij mèistr e j’engigné,

L’assistensa e diression

Për difende la meison[43]

Da la furia dë le pignate[44],

Dij canon e dle granate.

Tuti quanti ij mèistr dë ca[45]

As vëdìo për lì impiegà

A provëdde ’l sò padron

D’ ris e ’d carn, bòsch e carbon,

D’ piasentin, d’ toma e d’ rubiòle,

D’ gruera, d’ carn e dë fròle[46].

E ij Sgnorass a ca pien dë por

A durvivo ij sò tiror,

Baronavo ij sò bëscheuit[47]

E, ën secret, as dasìo deuit

Për ij scalon e le scalëtte

A scapé con d’arie biëtte.

Le Madame co’ij mantëlèt

Dëspojavo ij gabinèt,

Embalavo le soe scàtole,

Arangiavo soe giargiàtole[48]

D’Inghiltèra e dë Paris

Për mandeje a ca dj’amis.

Ij porteur dë Viù e de Lans[49]

As trovavo pa d’avans;

A grignavo pes che ’d fòj

Ën fasendse una gran gòj,

Bin ch’a fusso com dë mulèt

Carià ’d let, còfo e cofënèt.

Piassa d’Erbe[50] ënt pòchi quart

L’ha dëcò pijà chila sò scart,

Pòr, endivie, bìe, laitùe,

Ravanèt, salade mënùe[51],

L’ero tute ën contrà dë Pò[52].

[…]

La matin ës fasìa ’n marcà

Dov a-i era quantità

D’osej, dë pole e dë colombòt,

D’euv e dë melon e dë fi e dë siolòt,

Dë grassin-e e de bon butir

Ch’a fasìa passé ij sospir.

 

Nel frattempo si dà un ordine che fu causa di gran disordine: che si portasse via ciò che è commestibile con tutto ciò che è combustibile. Chi può parlare qui delle tante carte che si sono viste subito ad imballare, codicilli e strumenti (legali), scritture e testamenti, orazioni e poesie, memorie e le altre cose da nulla e di argomento legale e medico sono state portate sulla collina! Le signore coi signori correvano tutti su e giù per Torino ad organizzare coi capimastri e gli ingegneri l’assistenza e la direzione per difendere la loro casa dalla furia delle bombe, dei cannoni e delle granate. Tutti quanti i maggiordomi si vedevano qua e là occupati a provvedere al loro padrone riso e carne, legna e carbone, formaggi piacentini, tome e robiole, groviera, carne e fragole. E i gran Signori a casa pieni di paura aprivano i loro cassetti, ammucchiavano i loro denari e, in segreto, si davano da fare per gli scaloni e le scalette a scappare con facce smorte. Le Signore con le mantelle spogliavano i loro camerini, imballavano le loro scatole, sistemavano le loro cianfrusaglie d’Inghilterra e di Parigi per mandarle a casa degli amici. I facchini di Viù e di Lanzo non si trovavano più a sufficienza; ridevano come dei matti facendosi un gran gusto, anche se erano come dei muli carichi di letti, cofani e cofanetti. Piazza delle Erbe in poco tempo ha preso anch’essa il suo scarto, porri, indivia, bietole, lattughe, ravanelli, insalate fini, erano tutte in contrada di Po. […] La mattina si faceva un mercato dove c’erano in quantità uccelli, galline e colombotti, uova e cetrioli e fichi e cipolline, e grasso e buon burro che faceva passare i sospiri.

L’assistenza religiosa[53]. Ai poveri si provvede con gara unanime, mentre il Senato, trasferitosi a San Francesco da Paola, mantiene l’ordine e la giustizia[54]. Nei momenti di tregua la popolazione, all’aperto, fa congetture, propositi, discute. Qualcuno teme che il principe Eugenio non riesca a sfondare dal Tirolo. C’è chi prega e qualche francofilo sarebbe anche incline a cedere: le palle cadono e richiamano tutti alla triste realtà [vv. 783-872]

 

Ël Senat, ënt ël Convent

Dij Paulòt[55], a stava atent

A mantënì bon-a giustissia

E tënì an fren la malissia,

Përtant ch’gnun dij barba-pija[56]

Dëvèissa andess-ne an Picardìa[57].

[…]

Tut Turin[58] da ën sima ën fond

A l’era pien de moribond.

A cascavo bale e bòte

Sul capëlin-e, sul calòte[59],

Su le pruche, su le scufie,

Su le Sgnore e le bërnufie

 

Il Senato, nel Convento dei Parlotti, stava attento a mantenere buona giustizia ed a tenere a freno la malvagità, affinché nessuno dei ladri dovesse andare a farsi impiccare […] Tutta Torino da cima a fondo era piena di moribondi. Cadevano palle e scoppi sui cappellini, sulle papaline, sulle parrucche, sulle cuffie, sulle Signore e le smorfiose.

I Decurioni fanno calare il toro che sovrastava la Torre di Città, fra i motti della popolazione. Attorno ai fossati, alle fortificazioni esterne, alle mura, alla galleria della Mezzaluna, fuoco, feriti, prove di coraggio [vv. 873-902]

Il bombardamento, anche notturno, si intensifica. Palazzi ben noti sono colpiti. Persone illese tra le macerie. Vittime civili: sono colpiti anche i morti nelle loro tombe violate dalle bombe e le statue dei santi non sono immuni. Torino sembra una novella Troia [vv. 903-964]

 

Pianta generale delle fortificazioni della piazzaforte torinese nella consistenza raggiunta nel corso del XVIII secolo

 

Lavori ossidionali: mine come talpe, fornelli, contro-mine, cose mai viste; anche le donne lavorano nei posti dove si muore e partecipano ai lavori, suscitando l’ammirazione dei francesi. I cittadini volontari sulle fortificazioni a sostegno del presidio. [vv. 965-1028]

 

Da lì a pòch monsù Chartogn,

Së lasser cuje com un codògn[60],

Për volèj fé na vendëtta

Tra ël Valentin e la Crosëtta.

Ma vënoma al pì bon

Dë vëdde sgaté ij talpon,

Për fé sauté an aria

La gent temeraria

A fòrsa dë fornej e dë fogasse,

Dë min-e mësan-e e basse[61].

A l’é pur brut a sentì dë sot

Manché la tèra ënt un bòt,

E d’ën cima a quàich bonèt

Sauté ën sù coma d’oslet,

Për dovèj torné ëndaré,

Sensa pì podèisse aussé.

 

Di lì a poco il signor Chartogn si lasciò prendere come uno stupido, per voler fare una vendetta tra il Valentino e la Crocetta. Ma veniamo al meglio di veder scavare le talpe, per far saltare in aria la gente temeraria, a forza di fornelli e di me a focaccia, di mine medie e basse. È pur brutto sentirsi di sotto mancar la terra tutto a un tratto, e sopra una qualche mina a bonet saltar su come uccelletti, per dover tornare indietro, senza più potersi alzare.

Le munizioni scarseggiano, ma colpi di mano fortunati introducono in città colonne di rifornimento. I francesi deviano anche i canali che danno acqua agli opifici e all’officina della polvere: con le braccia si supplisce a muovere i magli. Vengono bombardati i magazzini, incendiate le opere e asfissiati quelli che scavano per investire le difese [vv. 1029-1052]

Il Duca batte le campagne e dal pinerolese tiene l’invasore in allarme, intercettando rinforzi e colonne francesi. Scontri con gli investitori, disturbati in ogni loro movimento. Molti sono i prigionieri. Sortite sanguinose contro gli assedianti che devastano a ferro e fuoco le vigne della collina. [vv. 1053-1104]

Un buffo ufficiale francese è fatto prigioniero. Gallerie, contro-gallerie. Anche i fanciulli ricoverati dagli istituti benefici partecipano, volenterosi e quasi scherzando, ai lavori e, se qualcuno è colpito, lo liberano dai cumuli delle macerie e gli danno sepoltura onorata. Cannoneggiamenti furiosi e ben centrati, mine, colpi di mano. [vv. 1105-1162]

 

Òh! sentì adess con che sirimonial

A l’han mënà ij paisan[62] un Ufissial

Che l’era strassà com un làder,

E un capel da fant da quàder

A portava su la testa,

Tut comodà bin për la festa,

Con na crovata al còl da manigòld

Ch’a valìa gnanca ’n sòld,

Mal pentnà con dë braje dë tèila

Oite bësoite com la pèila

Con dë scarpe e dë caussèt

Da spaventé ij palchèt[63].

 

Oh! sentite ora con qual cerimoniale hanno condotto i villici un Ufficiale che era stracciato come un ladro, e portava in testa un cappello da fante di quadri, tutto ben sistemato per la festa, con una cravatta al collo da manigoldo che non valeva nemmeno un soldo, spettinato con delle braghe di tela unte e bisunte come una padella con della scarpe e delle calze da spaventare i pavimenti.

Prime notizie, e sollievo, dell’approssimarsi del principe Eugenio. I francesi dilagano sulla collina torinese e, novelli Neroni, incendiano ville e casali [vv. 1163-1195]

Notte del 27 agosto. Impetuoso tentativo di irruzione notturna francese nelle difese interne della cittadella: la sorpresa è rintuzzata anche alla baionetta[64], con strage degli assalitori, che però riescono a stabilirsi in una controguardia. Sanguinosa contro-azione diurna dei piemontesi, che li cacciano [vv. 1197-1246]

 

J’assediant a se fero vëdde

A la Mesa Lun-a[65], e podì bin crëdde

Provist d’arnèis e sach de lan-a[66],

E de la mej gent veteran-a

Crijant: “Tuè le piè de moton”[67],

E giurand com de carton[68].

E ij Fransèis, com tanti giari[69],

N’han virane ’l tafanari[70],

Ciapà ’d mes e ciapulà

Bin ch’a fusso ën quantità.

[…]

Son tornaje a ciapulé

Com a fan ij sautissé,

Arivand la neuit dë Natal

Quand a masso l’animal[71].

 

Gli assedianti si fecero vedere alla Mezzaluna, e potete ben credere provvisti di arnesi e di sacchi di lana, e dei migliori veterani gridando: “Uccidete le zampe di montone”, e bestemmiando come dei carrettieri. E i Francesi, come tanti topi, ci hanno voltato il deretano, presi in mezzo e fatti a pezzi per quanto fossero in gran numero. […] Son tornari a farli a pezzi come fanno i beccai, quando arriva la notte di natale ed ammazzano il maiale.

Viene a Torino il nuovo comandante supremo francese, il duca d’Orléans, a dare sostegno al La Feuillade. Sono tanti i cadaveri che si decide di bruciarli. Da Voghera avanza il principe Eugenio. Scambi di invettive e di scherni tra le opposte trincee [vv. 1247-1276]

I francesi, verso sera, per camminamenti mascherati e coperti tentano in forze un assalto alla Mezzaluna: grandine furiosa di colpi di minuta artiglieria, di palle di pietra, mortai, mischie, corpo a corpo: alla fine sono respinti [vv. 1277-1320]

Prodezze di generali, ufficiali, soldati, all’arma bianca, picche e partigiane. Tremila francesi caduti: s’incendiano con catrame le fascine di cui erano coperti i camminamenti e nel fuoco periscono feriti e moribondi. Una mina scaraventa nel fossato interno un grosso cannone francese che viene portato in trionfo in città [vv. 1321-1398]

Mentre ferve la mischia sui bastioni, i religiosi confessano e confortano. I cittadini trasportano e ristorano i feriti. Episodio burlesco su di una lanterna trovata nelle linee francesi. I sindaci si congratulano col Daun che alla sua volta elogia la città [vv. 1399-1450]

Si scorgono fuochi su Superga: è il principe Eugenio che si avvicina risollevando gli animi. Una felice sortita a Pianezza contro una colonna nemica in movimento. Il 7 settembre si prepara la battaglia campale che metterà fine all’assedio. In città tutti sono in armi e pronti a concorrere, dall’interno, all’azione campale. Le ultime vittime. Breve quadro della battaglia ed episodi principali. I francesi dell’Orléans fuggono verso Pinerolo [vv. 1451-1584]

 

Ai set costa Sità giojosa dë pì

Së srcordrà sempre dë cost di:

Ël di pròpi dë San Gra,

La vigilia dë la Natività[72]

Dë la nòsta gran Sgnora,

Che ën men dë tre quart d’ora

As é degnà dë dé fin

A le miserie dë Turin

[…]

S’é pì nen trovà mojan

D’aresté ij nòsti paisan

Che son surtì con soe mëssòire

A fé ën sà tampe dë sfòire,

A fé ën là dij massacrass,

A tajé dij còl e dë brass.

 

Al sette questa Città gioiosa non si scorderà mai più di questo giorno: il giorno proprio di San Grato, la vigilia della Natività della nostra gran Signora, che in meno di tre quarti d’ora si è degnata di far finire le miserie di Torino […] Non si è più trovato mezzo di fermare i nostri villici che sono usciti con le loro falci per fare di qua buche piene di feci liquide, per fare di là dei gran massacri, per tagliare colli e braccia.

 

Real chiesa di Santa Cristina, affresco con il voto di Vittorio Amedeo II e di Eugenio di Savoia-Soissons

Episodi di valore anche fra i francesi. Muore il maresciallo Marsin, a fianco dell’Orléans che si ritira. Rammarico dell’Aubusson per la triste ritirata [vv. 1585-1618]

Il ricco bottino: civili e contadini carichi di valigie, finimenti, cavalli, oggetti preziosi abbandonati o presi al nemico, mentre ai guadi premono le colonne in fuga [vv. 1619-1670]

Bandiere nemiche e prigionieri sfilano per la città, tra animazione e reciproche congratulazioni. Mercati improvvisati del bottino [vv. 1671-1706]

 

E la ròba che valìa des

A së dasìa për sinch o ses.

J’arlògi pì bej dë Paris,

Da esse neuv a esse armis,

As vendìo fin doi liron[73],

Quatr, sinch lire, ses doson:

E së dasìo për lì ënt le stale

Për tre dobie doi cavale.

 

E la roba che valeva dieci si vendeva per cinque o sei. Gli orologi più belli di Parigi, fossero nuovi o usati, si vendevano a due lire, quattro, cinque lire, sei dozzoni: e si davano in giro nelle stalle per tre doppie due cavalle.

La sera sfilano il duca Vittorio Amedeo e il principe Eugenio: ringraziamento in Duomo, visita alla guarnigione e al municipio, elogi alla città. Cifre dei morti e dei feriti. Il miserevole stato delle fortificazioni, delle chiese, delle case; i costi della guerra. Si riprende Chivasso e la guerra si sposta verso Casale [vv. 1707-1812]

 

Dòp avèj rëfissià

Për qualch di tùit ij soldà,

Ën passand e quasi për spass,

Së recuperer Civass;

E j’ho vëddù col di na gran coalera

D’ufissiaj dë bruta cera,

La guarnison e ij carriagi

Dij sò pëcit[74] bagagi,

Guarnà da fomnasse

Che parìo dë carcasse,

E a la testa ël governator,

Col che fasìa tant rumor

E ch’a l’era prest a mòrde,

Co’ij strapass o con le còrde.

E përchè Soa Autëssa va dë volà

Vers l’Italia[75] a liberé le sità;

A n’é pa pì me mësté

Dë fé dë rime sensa pé

Fàite fedelment a la bon-a,

Dë seguité la soa përson-a:

Ma më conven ën sul pì bon

Tut pien d’amirassion,

Chité lì; vardé lì, i chit,

E sia scrit lò ch’a l’é scrit.

Già che Turin l’é liberà

Pòso mia Arpa Dëscordà

E i la taco eternament

Al muraje dë Casal con cheur content.

 

IL FINE

Dopo aver fatto riposare per qualche giorno tutti i soldati, di passaggio e quasi per spasso, si recuperò Chivasso; e io vidi quel giorno un gran codazzo di ufficiali con una brutta faccia, la guarnigione e i carriaggi dei loro piccoli bagagli, custoditi da donnacce che sembravano carcasse, e alla testa il governatore, quello che faceva tanto rumore sempre pronto a mordere, o con gli strapazzi o con le corde. E poiché Sua Altezza va di volo verso l’Italia a liberare le città, non c’è più bisogno di fare rime senza metro fatte fedelmente alla buona, di seguire la sua persona: ma mi conviene sul più bello, tutto pieno d’ammirazione, piantar lì; guardate, smetto, e sia scritto quello che è scritto. Dato che Torino è liberata poso la mia Arpa Scordata e la attacco per l’eternità alle mura di Casale con cuore contento.

 

[1] Tra questi testi i più interessanti sono gli statuti chieresi del 1321 (il più antico testo datato e collocabile spazialmente con certezza in Piemonte) e la «Sentenza di Rivalta»(1446), recentemente studiata, sotto l’aspetto storico-giuridico, da Stefano Ridella (giudice al TERP di Torino), in «La Slòira, arvista piemontèisa» anno XXIII/nr. 92 (dicembre 2017), pp. 11-19.

[2] Come già detto in altra sede, si rimanda, per queste testimonianze dei secoli XIII/XVI al testo di G. Clivio, Storia della letteratura in piemontese (Torino 2002), ai capp. I-III (passim) e, per una più ampia scelta antologica, all’opera di G. Gasca Queirazza s.j.-G. Clivio-D. Pasero, La letteratura in piemontese: Dalle origini al Settecento-Raccolta antologica di testi (Torino 2003; pp. 51-132).

[3] Pubblicati da G. Clivio in «L’Italia dialettale», nr. 37/1974, pp. 18-120.

[4] Con questo aggettivo, di uso abbastanza comune a quei tempi, si vuole intendere – e nel nostro caso a ragione –  che il poema (Arpa) non sempre obbedisce alle regole classiche di prosodia e metrica.

[5] Conosciamo infatti un’edizioni torinese (presso Fontana), s. d., un’altra, sempre torinese (presso Guigonio), s. d., ma presumibilmente del 1707, una milanese (presso Malatesta), s. d. ed infine un’ultima torinese (presso Soffietti) del 1788. L’edizione moderna di riferimento è quella curata da Renzo Gandolfo (Torino 1969), con introduzione, testo, note e glossario (manca però la traduzione). Il testo comparve dapprima anonimo e fu attribuito al Tarizzo da Tommaso Vallauri nella sua Storia della poesia in Piemonte (Torino, 1841).

[6] È appena il caso di ricordare che uno dei benemeriti nei soccorsi, sia morali che materiali, nei confronti della popolazione cittadina fu il beato Sebastiano Valfrè (1629-1710), appartenente all’ordine filippino e confessore del Duca.

[7] Ricordiamo che nella notte tra il 29 ed il 30 di agosto avvenne il sacrificio di Pietro Micca (nato nel 1677 vicino a Biella) che con la sua morte salvò la città dalla conquista francese.

[8] Può bastare questa osservazione cronologica a rivendicare la maggiore importanza dei documenti scritti (e quindi della linguistica storica) rispetto alle testimonianze orali (ed alla linguistica descrittiva). Per quanto i “testimoni” intervistati da solerti ricercatori possano risalire indietro con la memoria, non si potrà certamente ritornare – come nel caso dell’Arpa – ai primissimi anni del Settecento. A ciò si aggiunga che con i documenti si può, nella quasi totalità dei casi, avere notizia di una lingua ampiamente diffusa geograficamente, mentre le interviste “sul campo” ci danno informazioni su di realtà spazialmente molto limitate e frammentarie. Va da sé, comunque, che la diversità di approccio delle due metodologie di ricerca obbedisce, anche, a differenti impostazioni di tipo sociologico e politico-culturale da parte dei ricercatori.

[9] Ricordava il linguista Sergio Gilardino della McGill University di Montréal («Per la salvaguardia del Piemontese: il ruolo delle lingue ancestrali nel contesto linguistico odierno», in Atti del Convegno: «La lingua piemontese un patrimonio da difendere»; Torino 2002, pp. 35-40) che l’inuktitut, cioè la lingua degli eschimesi che vivono nelle regioni settentrionali del Canada e dell’Alaska, possiede«una ventina di parole»per indicare la «neve», mentre in italiano, come nella maggior parte delle lingue cosiddette «ufficiali» e di uso, ne abbiamo una sola (al massimo col suo diminutivo alterato «nevischio»), dovendo poi aggiungere un aggettivo (con buona pace della «economicità») per indicare la «neve fresca o umida o farinosa o ghiacciata ecc.». Così in piemontese, pur senza raggiungere le vette terminologiche degli eschimesi, mentre abbiamo una sola parola (fiòca, col diminutivo alterato fiochigna) nella koinè cittadina, nelle varianti rustiche (e specie in quelle di montagna) abbiamo, oltre alla fiòca, almeno altre tre parole: brossà per il nevischio, frasa (< lat. volg. fracidam) per la neve bagnata, patarass per indicare la neve umida a larghe falde (che scende in genere a tarda stagione: febbraio/marzo).

[10] Enrico Bussolino (alias Armita ’d Cavorèt; Torino 1774-1838) scriveva nel 1830 nel suo «caprissi-tòni» Poupourì a la sënëvra: «… Sent ane fa, j’andero, ij fero, ij dìsser/ l’avìo un son legal, ansi corista:/ dovreje ampòch adess, av crëddo un svìsser…».

[11] Con questa definizione, un po’ pomposa per la verità, nel Settecento si intendeva la «collina» torinese (altitudine massima m. 715: Colle della Maddalena).

[12] Forma arcaica: la troviamo, nella forma mojé, anche nel di poco successivo poeta torinese padre Ignazio Isler (1699-1778). Nella lingua moderna è stato sostituito da fomna («femmina, donna»).

[13] La creada è la «domestica, dama di compagnia». Ispanismo probabilmente passato in koinè piemontese attraverso la parlata giudeo-piemontese.

[14] «Carrozze (lett.) cornute»: termine popolare-scherzoso per indicare dei carri “trainati da buoi”.

[15] Termine arcaico, < verbo (ar)vende, per indicare le venditrici, in genere ambulanti, di verdure ed altri commestibili (ma non solo).

[16] Tricolon per indicare tre diversi attrezzi di cucina in uso (linguistico) ancora attuale: le pentole (aramin-a, moderno ramin-a, in quanto fabbricata col rame < aram, ram), i mestoli (cassul, diminutivo di cassa, «ramaiolo», da cui deriva anche un altro termine di cucina: cassaròla, «casseruola») e le schiumarole (scumòira < scuma o s-ciuma). Dal punto di vista socio-linguistico notiamo che il modo di dire avèj ël cassul an man («avere il mestolo in mano») significava «avere il dominio assoluto», riferendosi al fatto che la massaia, capo assoluto della economia domestica, aveva nel mestolo-scettro il simbolo del suo potere. Era tradizione, inoltre, rimasta ancora nelle campagne fino almeno alla metà del secolo scorso, che la madre di casa/suocera cedesse il mestolo (con una semplice ma suggestiva cerimonia) alla moglie del figlio maggiore quando costei faceva il suo ingresso in casa.

[17] Come già detto altra volta, nel lessico della moda dominavano i francesismi, come questo mantò (< manteau), cioè «cappotto, mantello», in questo caso con ricami floreali a «garofani e tulipani» (incidentalmente osserviamo che queste due specie di fiori, garofani e tulipani, metaforicamente in piemontese indicano «persone non molto intelligenti»). Cfr. per altri francesismi anche infra.

[18] Tre versi occupati esclusivamente da termini che indicano cibi (cfr. in genere la letteratura popolare o anche autori come Rabelais): lardo, mortadella (salam dë Bològna: ancora oggi a Milano la “bologna” è la mortadella), prosciutto (il francesismo giambon < jambon < jambe, cfr. it. zampone), pancetta (vëntrësca, lett. «viscere, frattaglie»), lingua in salamoia e salsiccia fresca (sautissa < fr. sautisse).

[19] Letteralmente le «fattucchiere» < lat. tardo mascam, «strega» (a sua volta < base preromana *mask-, «scuro»); voce diffusa anche in area provenzale e ligure.

[20] La traduzione dei passi riportati è mia: per elaborarla mi sono anche valso dell’egregio glossario e delle note dell’edizione Gandolfo.

[21] Cartoccio, o bossolo, a forma di piccolo corno.

[22] Altra «énumération à la Rabelais» di termini relativi al lessico (francesizzante) della moda. Nell’ordine: soprabiti (sortot < fr. sur tout, «abito che va sopra ogni altro indumento»; si trova anche la forma surtò), busti, corsetti da donna o giustacorpi o camiciole da notte (< fr. brassière), pettorine (piesse o pesse), corsetti, grembiuli corti da cucina (< menagi, «governo della casa», < fr. ménage < lat. med. mansionaticum), scialli o fazzoletti da collo (cfr. ital. fisciù < fr. fichu, lett. «messo su alla meglio» < ficher, «mettere, ficcare»), colletti o scialli, merletti, lunghi mantelli di gala (< fr. bas de robe), baveri e manicotti di pizzo (fr. manchon; cfr. piem. mania, «manica»). Per conoscere nei particolari le caratteristiche di questi indumenti femminili si consiglia la consultazione di V. di Sant’Albino, Gran dizionario piemontese-italiano; Torino 1859 (rist. anast. 1981).

[23] Località appena fuori dalle mura cittadine allora; oggi quartiere centrale e, ahimè,«multietnico».

[24] Forma arcaica per il moderno nen, che vale sia come negazione semplice (“non”) sia come pronome indefinito negativo («niente»). In realtà, ancora nel Settecento, nent/nen valeva solamente come «nulla, niente», poiché la negazione semplice era non o n’/’n preposti al verbo (Mi i non dis; Mi i’n dis > Mi i diso nen), cui si aggiungerà, a partire almeno da metà Settecento, il  francesismo pa.

[25] Modo di dire per indicare i nobili. Lo troviamo frequentemente, oltre che in poesia, anche nelle canzoni popolari.

[26] Modo di dire per indicare uno «scappato dal carcere» e quindi un “poco di buono”.

[27] Imprecazione di origine francese che, così come i similari zernicoton (cfr. infra) e zernidiable, deriva dalla forma francese «j’arnie bleu (per non dire Dieu)», «j’arnie coton» e «j’arnie diable». Altra imprecazione eufemistica piemontese era sachërnon < fr. sacré nom (de Dieu), che troviamo anche in ligure ed in romanesco, o ancora sacradisna (< sacré Dieu). Come sostantivi zerniblù, zernicoton e zernidiable valgono appunto «miscredente, ateo, bestemmiatore, senza Dio».

[28] Italianismo che non vale ovviamente «sedia» (in piem. cadrega < lat. cathedram attraverso una forma popolare metatetica *cadredam), ma «calessino, carrozzino a due posti e con due ruote» . Il termine cadrega, diffuso un po’ in tutta l’area gallo-italica (cfr. anche il toponimo Carrega) e provenzale, si presentava anche nella forma carea, rimasta nella lingua attuale solamente come nome di un gioco infantile: andé (porté) an papa carea, che consisteva nel fatto che due bambini ne portavano un terzo seduto sulle loro braccia incrociate ed adattate in una sorta di portantina umana (la definizione quasi certamente nasceva dalla somiglianza della portantina papale).

[29] Dal lat. volg. theriacam («medicamento, unguento»), di origine greca. Da notare che, per traslato, triaca passa ad indicare, probabilmente a causa del cattivo odore di molti unguenti e medicine, «sterco, liquame» (tampa dla triaca, «fossa del letame, pozzo nero» ).

[30] Letteralmente la pavan-a è la «paura», e poi, per metonimia, qualunque indisposizione che nasca dalla paura: palpitazione, affanno, ma anche disordine intestinale con flatulenze.

[31] All’epoca nel parco del Valentino si trovava una fonte di acqua minerale a cui ci si recava, almeno i nobili, in passeggiata a cavallo (detta popolarmente santrotin), per bere.

[32] Termine tradizionale piemontese per indicare l’innamorato, letteralmente «sfogliatore». La sua origine è probabilmente da ricercarsi nella tradizione rurale di trovarsi insieme (ragazze e ragazzi) a sfojé la melia, cioè «sfogliare il granturco», operazione durante la quale nascevano sempre nuovi amori tra i giovani.

[33] Altri termini del lessico della moda. Il bonèt è il cappello floscio (< fr. bonnet, «berretto»), mentre la paladin-a è una sorta di stola di pelliccia da mettersi intorno al collo. Da notare che il moderno dolce di nocciole definito bonèt non ha nulla che vedere, almeno in linea diretta, col «berretto», ma deve il suo nome ad un vaso di rame stagnato utilizzato in cucina per far cuocere, appunto, i dolci, il cui nome a sua volta proveniva dalla somiglianza di tale utensile col bonèt (berretto).

[34] È una forma molto icastica (cul è proprio ciò che sembra…) per indicare quelle imbottiture che le donne del tempo collocavano sul loro posteriore per dargli una forma più rotonda e piena.

[35] Termine non presente nei lessici, neppure in quelli italiani. L’ultimo editore moderno, cioè il Gandolfo (ed. cit., p. 73), lo considera un diminutivo di sërpiera, e lo intende come “ruvida tela da imballo».

[36] Piccolo comune della val di Susa (prov. di Torino). Evidentemente al tempo i suoi abitanti avevano assunto un valore emblematico quanto ad una loro presunta dabbenaggine.

[37] Dal francese caquet, è la «sfrontatezza». Il termine si usa in genere nelle formule: aussé ’l cachèt, (fé) bassé ’l cachèt, «alzare la cresta, (far) abbassare la cresta».

[38] Georg Barany era comandante degli Hayducken (in it. Aiducchi o Aiduchi), un reggimento di fanteria arruolato tra Croazia e Ungheria.

[39] Letteralmente «Capretti». Era il soprannome che i piemontesi davano ai francesi, i quali contraccambiavano con «pieds de mouton» (zampe di montone).

[40] Altra metafora (cfr. supra tajacaden-a) costruita su immagini legate alla prigionia. Il prigioniero è «sposato alla catena».

[41] Doja (< lat. dolia, neutro plurale di dolium, «brocca, giara») è la «brocca» (da cui – forse – il nome di Gianduia < Gioann dla doja), ma qui è usata per indicare qualcosa di poco valore, così come troviamo anche, nella tradizione socio-linguistica piemontese, l’espressione dël pento (lett. «del pettine»), con lo stesso significato. Quest’ultima formula risale alla tradizione montanara (specie nella cuneese valle Maira) per cui le donne vendevano i propri capelli ai caviàire (lett. «capellai») che a loro volta li rivendevano in città (soprattutto in Francia) per farne parrucche. I capelli venivano tagliati annualmente dal caviàire, ma le donne vendevano anche (a parte e ad un prezzo inferiore) i capelli che erano rimasti nel pettine (cavèj dël pento, appunto), di minor valore perché più deboli e meno lucenti degli altri. Quanto alla doja usata in senso metaforico, probabilmente ciò è dovuto al fatto che, essendo le doje normalmente di terracotta, si rompevano facilmente e valevano quindi poco.

[42] Termine molto antico per indicare «cose di poco valore, ciarpame» (< franc. guenille, «straccio»).

[43] Dal latino volg. mansionem è forma che troviamo già in antichi documenti pedemontani come i Sermoni Subalpini. Potrebbe quindi non trattarsi di francesismo (come sembrerebbe a prima vista), ma termine autoctono gallo-italico. Lo stesso termine, con minime varianti (mison), è ancora usato in alcune aree isolate della regione.

[44] Dal contesto si arguisce che si tratta di un tipo particolare di bomba, quasi certamente di forma simile ad una pignatta, cioè una pentola panciuta di terracotta. Il termine comunque non si trova, con questa accezione, nei lessici.

[45] Sono i maggiordomi, lett. «maestri di casa». Il termine mèistr (< magistrum, fr. maitre) si trova ancora in uso attualmente solo nelle forme composte meistrdabòsch, «falegname (pronunciato talora, popolarmente, meisdabòsch) e cap-mèistr, “capomastro»; altrimenti è sostituito con la forma magìster o, meno bene, con l’italianismo maestro (accettabile solo nel caso di «direttore d’orchestra”).

[46] Altro esempio di accumulo di termini, relativi nella maggior parte al cibo o, comunque, alla casa: riso, carne, legna (notiamo che il piemontese, come il francese, non distingue, se non grazie al contesto, «legna» da «bosco» , usando sempre il termine bòsch, cfr. fr. bois), carbone, formaggio di Piacenza, tome (< lat. volg. *tomam, «formaggio» , forse dal greco tomé, «taglio» oppure da una base pre-romana *tuma, «formaggio» ), robiole (< rubeolam, «di colore rossiccio» ), groviera, carne (ripetuto probabilmente per esigenza metriche) e fragole. Doveva trattarsi di leccornie, o comunque di cibi di una discreta ricercatezza: la carne, ovviamente, e i formaggi sono gli stessi citati dal p. Isler (Canzone V) come esempi di prelibatezze presenti nel paese di Cuccagna.

[47] I bëscheuit (< lat. volg. biscoctum) sono castagne cotte «due volte» al forno. Popolarmente (come in questo caso) il termine vale «denari» . Osserviamo che invece gli italiani «biscotti»dolci in piemontese sono definiti con l’italianismo bëscotin.

[48] Come ghënije (cfr. supra) è un altro termine che significa «bagatella, cianfrusaglia» , il cui etimo è incerto, ma forse da collegarsi alla base garg-, a capo di una famiglia semantica di derivati collegabili con l’idea di «disordine, ozio, rifiuti» .

[49] Il francesismo porteur sarà, di lì a qualche tempo, sostituito dall’italianismo fachin (che troviamo nell’Isler, quindi intorno alla metà del secolo XVIII). Quanto alla loro provenienza, famosi erano i facchini di Viù e di Lanzo, località entrambe delle valli di Lanzo (prov. di Torino), così come, in seguito, anche quelli di Varallo Sesia (prov. di Vercelli), citati dall’Isler come esempio di grossolanità dovuta al loro fisico (cfr. Përchè a l’ha na schinassa/ Da bon fachin ’d Varal, Canzone XIV, vv. 127sg).

[50] Piazza delle Erbe (ora piazza Palazzo di Città) era il luogo in cui, all’epoca, si teneva il principale mercato orto-frutticolo della città di Torino (donde il toponimo).

[51] Altro accumulo di termini gastronomici, ben diversi, per il loro valore e la loro prelibatezza, da quelli che abbiamo visto supra: porri, insalate varie (indivia, lattuga, insalata piccola), bietole e ravanelli. Un altro elenco di cibi, anch’essi venduti al mercato, seguirà alcuni versi infra: uccelli, galline e colombi (animali che con termine comune erano indicati come volaja), uova, cetrioli (cfr. Di Sant’Albino, cit., p. 777), fichi, cipolline, grasso (lardo; quindi, probabilmente, «piccoli pezzi di lardo»), burro (< lat. volg. *buttirum, termine di origine greca).

[52] È ovviamente l’attuale via Po (da piazza Castello al fiume). Al tempo dell’assedio questa zona orientale della città era la più sicura (e infatti vi si trasferì anche il Senato cittadino) poiché protetta dalla collina, da cui gli assedianti, per ragioni tattiche poiché non potevano piazzarvi batterie d’artiglieria, non riuscivano a far fuoco sull’abitato.

[53] Desta meraviglia il fatto che non si parli, neppure per accenni, al beato Valfrè (cfr. supra).

[54] Secondo quanto riporta Gandolfo (ed. cit., pag. 32 nota), bastò l’impiccagione di un solo ladro per mantenere con l’esempio l’ordine, impedendo così furti e saccheggi.

[55] Detta popolarmente dei frati Paolotti, era la congregazione dei Minimi, fondata da San Francesco da Paola intorno alla metà del XV sec.

[56] Termine tra il popolare ed il furbesco per significare «ladro». Mentre non ci sono dubbi sul secondo membro del vocabolo (-pija), dal verbo pijé («prendere», e quindi «rubare»), la prima parte del composto potrebbe sia rimandare al sostantivo barba (lett. «zio», ma termine di ampio uso popolare in una vasta gamma di significati, tra cui “compare, paraninfo, protettore ecc.»), ma anche al verbo barbé, «sottrarre, portar via, rubare» (in genere “con destrezza”): avremmo, in tal caso, una forma ipercaratterizzata, che in italiano potrebbe suonare come «ruba-prendi» o, più popolarmente ancora, «gratta-ruba».

[57] Gioco di parole eufemistico per indicare l’impiccagione (andé, mandé an Picardìa), inquadrabile in una vasta serie di formule «eufemiche» piemontesi, relative a malattie e morte, del tipo andé (mandé) a Marsaja/Marsija, «morire» (due località in Piemonte di nome Marsaglia: una in provincia di Cuneo, l’altra nel comune di Volvera, sede di una famosa battaglia del 1693, e Marsiglia, città francese; entrambi i toponimi rimandano all’idea del «marcire»), andé (mandé) a Mortara, «morire» (Mortara/mòrt) o ancora andé (mandé) a Fossan (idea della «fossa»). Cfr. A. Cornagliotti, Come si muore in piemontese, in «Atti del XIII Congresso Internazionale di Studi sulla Lingua e la Letteratura Piemontese» (1996); Ivrea 1998; pp. 359-369.

[58] Notiamo, en passant, che in piemontese Turin/Torino è di genere maschile. Ancora oggi esiste un quartiere semi-centrale nella zona ovest della città noto come Pcit Turin («Piccolo Torino»).

[59] Le calòte (lett. «calotte, papaline») sono per metonimia i religiosi (frati e preti), così come troviamo anche, con lo stesso valore metonimico, trequare (lett. «tricorno») per indicare sempre i preti. Troveremo poi usatissimi questi due termini, con volontà di scherno e di dileggio, dai poeti giacobini. Sempre per metonimia troviamo, in questi stessi versi, pruche (nobili), scufie (donne del popolo).

[60] Letteralmente «mela cotogna» (pom codògn), ma con valore traslato «babbeo, sciocco».

[61] Elenco, piuttosto interessante, anche perché non sempre i termini sono presenti nei lessici, di vocaboli indicanti vari tipi di ordigni esplosivi: fornelli, focacce, mine medie e basse, a cui possiamo aggiungere (cfr. infra) bonèt. Mentre non danno problemi fornel («fornello», cioè un apprestamento per far brillare le mine) e le min-e mësan-e e basse (evidentemente due tipi diversi, più o meno grandi, di mine), mancano assolutamente ai lessici, ovviamente nelle accezioni relative agli esplosivi, sia fogasse che bonèt, per i quali si può pensare a bombe somiglianti nella loro forma a focacce ed al bonèt inteso non tanto come il cappello ma come l’attrezzo di cucina per cuocere i dolci (cfr. supra). Su tale linea interpretativa è anche, pur con qualche dubbio, l’unico editore moderno, il Gandolfo, a pp. 70 e 71.

[62] Paisan sono i «contadini», in quanto abitanti del pais (paese, campagna) contrapposto alla città (cfr. parlé ’d pais, «parlare campagnolo”). L’esercito regolare, in cui militavano anche reggimenti mercenari (in genere svizzeri, ma anche tedeschi), era appoggiato, tanto nelle campagne che negli assedi, sia dalle milizie «cittadine» che da quelle «provinciali».

[63] Immagine metaforica molto icastica: scarpe e calze sono talmente malandate da non essere neppure «degne» di  calpestare un pavimento di legno (palchèt), che ne avrebbe addirittura paura, ma solo camminare sulla nuda terra.

[64] Anche in questo caso provoca meraviglia il fatto che non si faccia il nome dell’eroe di quella notte, cioè Pietro Micca: fu lui, infatti, a salvare la città da questa incursione francese (cfr. supra). D’altra parte ipotizzare che il Tarizzo voglia imitare quegli storici classici (cfr. Catone Censore) che di proposito non facevano i nomi degli eroi romani è fuori discussione, poiché in tutto il poemetto troviamo citate persone (alcune a noi assolutamente sconosciute) che si distinsero, nel bene come nel male, durante l’assedio, sia tra i piemontesi e gli austriaci che tra i gallo-ispani.

[65] La Mezzaluna del Soccorso era una galleria di contromina (visibile ancora oggi negli scavi relativi) all’interno delle difese sotterranee della Cittadella di Torino.

[66] Materassi e sacchi di lana servivano per attutire i colpi e per ostruire le gallerie.

[67] È riportata in grafia piemontese la frase francese «Tuez les pieds de mouton», in cui, come già detto, «zampe di montone» è il nomignolo dispregiativo dato ai piemontesi dai francesi.

[68] Formula tipica in uso ancor oggi. Notiamo qui però l’uso della forma arcaica giuré nel senso di «bestemmiare» (cfr. anche il fr. jurer), che troviamo anche nell’altra forma «giuré parèj d’un Catalan» o nell’eufemismo «giuradisna» (cfr. it. «giuraddio») o ancora nell’esclamazione «giurapapé».

[69] Forma arcaica (cfr. prov. garri < prelatino *garrium, «topo»), poi sostituita dal francesismo rat, ma in uso ancora oggi in alcune aree sud-occidentali della regione, e che dà luogo anche a forme composte, come per es. giari-pron, «scoiattolo».

[70] Forma eufemica per indicare il «deretano», di etimo controverso (cfr. Aa. Vv., RepertorioEtimologicoPiemontese; Torino 2015, s. v., col. 1444).

[71] Come anche in altri dialetti d’Italia, l’animal per antonomasia è il maiale.

[72] Notiamo il profondo senso religioso dei nostri antenati, pronti a collegare qualunque evento importante con ricorrenze di ordine liturgico e cultuale. Il giorno della vittoria è quello di San Grato (7 settembre), santo particolarmente venerato nelle campagne piemontesi, in quanto protettore dei raccolti dal maltempo e in particolare dalla grandine, al quale sono state dedicate innumerevoli cappelle ed edicole campestri disseminate in tutto il Piemonte. Non solo, ma questa giornata precede l’altra grande festa, quella della Natività di Maria (8 settembre), alla quale il duca Vittorio Amedeo II aveva fatto voto di erigere una grande basilica (Superga) come ringraziamento per l’aiuto nella liberazione della capitale dall’assedio.

[73] Nel giro di pochi versi abbiamo testimonianza di alcune monete circolanti all’epoca in Piemonte: lira (< libram, «libbra», misura di peso) e liron (moneta da tre lire, cioè mezzo scudo di Savoia), doson («dozzone», moneta da 12 soldi e mezzo) e dobia («doppia», moneta da 10 lire).

[74] Forma arcaica (< base *citt-, «piccolo») del moderno pcit, di cui si conferma in tal modo la grafia etimologica (pcit, con p- non pronunciata, cfr. fr. clef) di contro a quella analogica (cit).

[75] Notiamo come allora (ma non solo…) «Italia» era tutto ciò che si trovava aldilà dei confini del Piemonte, come un paese «cugino», ma straniero, al di fuori delle terre sabaude.

 

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1 commento su “L’assedio di Torino del 1706 nel poema “discordato” di Francesco Antonio Tarizzo”

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