L’avventurosa vita di monsignor Giovanni Marchetti – II

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L’avventurosa vita di monsignor Giovanni Marchetti – I

 

 

Madonna di San Ciriaco, Regina di tutti i Santi. Duomo di Ancona

 

Il grande predicatore

Nel 1789 lo scoppio della Rivoluzione francese spinse il Marchetti ad una maggiore politicizzazione dei suoi testi, in un confronto con il pensiero rivoluzionario -non  solo di condanna dei suoi eccessi- rivolto all’opinione pubblica e soprattutto alle aree, nella società civile e nella Chiesa, che ne erano influenzate o ambiguamente possibiliste.

In effetti, ancora nel 1792, la curia romana considerava gli eventi una questione francese, mentre nella penisola i rapporti con i sovrani (compreso il granduca di Toscana Ferdinando III) si erano normalizzati.

Questo attesismo non era condiviso da Marchetti, in quanto ciò che egli aveva prospettato, nella sua stessa polemica con il Ricci e indirettamente verso il Granduca, era confermato drammaticamente dai fatti: il riformismo politico e religioso avevano favorito il giacobinismo e l’ateismo di stato. La Chiesa in Francia era colpita nei suoi beni e come istituzione, ma nello stesso tempo gli espropri, lo smantellamento delle strutture educative e assistenziali, l’abolizione delle decime, avrebbero avuto conseguenze negative sulle condizioni del popolo, andando a pro di speculatori e capitalisti.

L’atteggiamento di resistenza del clero francese, con il rifiuto del giuramento di fedeltà allo Stato rivoluzionario, indusse Pio VI ad incaricare il Marchetti di raccogliere e pubblicarne le rimostranze: nacquero le Testimonianze delle Chiese di Francia sopra la cosí detta Costituzione civile del clero decretata dall’Assemblea nazionale (I-XVI, Roma 1791–94).

Come da titolo, si tratta di centinaia di Istruzioni, Discorsi, Lettere, Dichiarazioni dei Vescovi, di Atti, Dichiarazioni, Deliberazioni e Proteste di Capitoli, di gruppi e di singoli ecclesiastici, di tutta la Francia, pubblicati nell’ordine della loro acquisizione, tradotti e con il testo a fronte. La lettura è impressionante per la loro sostanza reale e drammatica. Il Marchetti impostò l’opera e curò i primi due volumi, con introduzioni (sotto figura dell’”editore”) e annotazioni. In esse, celebrando il coraggio fino al martirio della Chiesa di Francia, ebbe anche ad evidenziare la pericolosità e l’ambiguità delle accentuazioni autonomistiche del gallicanesimo, su cui si erano appuntate le sue “controversie ecclesiastiche specialmente da oltre vent’anni” (p.XXII) . Marchetti intende isolare i “novatori”, rispetto all’insieme della Chiesa gallicana:

Ora questo velo ingannevole, questa mentita maschera di un partito condannato e ribelle va irreparabilmente a cadere. Dio ha combinato ne’suoi consigli una circostanza, in cui senza miscuglio alcuno di umani impulsi, senza interesse minimo di travisare la verità, quasi tutti i Vescovi Gallicani annunziano altamente ed intiero il sistema dottrinale delle lor Chiese circa il governo Cattolico, i vincoli dell’unità, la supremazia della Chiesa universale, le prerogative del di lei Capo.” (p. XXII/XXIII)

Ne nacque un dissenso con l’ala piú possibilista della curia romana, che impose di omettere le annotazioni nelle successive edizioni, tanto che il Marchetti in coscienza declinò l’incarico, che fu compiuto da altri.

Nondimeno, avendo dipoi il Pontefice trovate in quella raccolta alcune cose, che non poteva approvare, ebbe a dir del Marchetti: esso è un galantuomo, conosco che aveva ragione. (DF).[1]

Come avvertendo l’avvicinarsi della tempesta, il Marchetti moltiplicava frattanto il suo impegno, cercando una comunicazione più diretta e più ampia cha attraverso gli scritti.

Piú ancora che nello scrivere occupavasi egli nel predicare: perocché, dirette com’erano le sue intenzioni alla gloria di Dio ed al ben delle anime, vedeva che colla predicazione questi due fini li conseguiva piú pronti e piú manifesti. Fin da’ primi anni del suo sacerdozio cominciò ad esercitarsi nell’apostolico ministero della divina parola, senza schivare, anzi cogliendo con singolar predilezione, le piú umili opportunità d’evangelizzare ai meschini. Non aspirò mai alla gloria di famoso oratore ne’ quaresimali, assai spesso divenuti soggetto di lusso oratorio e di pubblica curiosità, anziché mezzi ed occasioni di penitenza, di lacrime e di fervore. Elesse invece come sua porzione di dare gli esercizi spirituali al clero, alle religiose, alle confraternite ed altre unioni; come anche gli piacque il faticare nelle missioni al popolo, fossero queste le consuete, che si fanno in di di festa nelle piazze di Roma, e sono chiamate Urbane, o fossero missioni piú solenni e stra ordinarie. Nella qual opera riuscí talvolta utilissima la sua voce anche a calmare le popolari sommosse, specialmente nel 1793, quando il popolo romano, per servirmi delle frasi d’un poeta, cangiò le lacrime in furor, corse urlando col ferro, e spense il suo magnanimo dispetto nel sangue d’Ugo Bassville

Della francese libertà mandato
Sul Tebro a suscitar le ree scintille.[2]

[..] Ed il suo predicare, mentre riusciva molto fruttuoso, era eziandio grandemente applaudito, tanto in Roma, quanto in altre non poche città, alle quali fu chiamato. Imperocché nel suo dire era animato da ardente zelo, — aveva gran robustezza di voce, usava opportunamente della sua profonda dottrina in teologia e nella santa Scrittura, era chiaro ed ordinato, e quantunque non iscrivesse mai parola a parola le sue prediche ed istruzioni, pure aveva buono stile, e con esempio non unico, ma raro, era più elegante e dilettevole nel parlare che nello scrivere. E questa fatica così grave d’annunziare la parola di Dio sembrava che invece di stancarlo gli desse nuovo e maggior vigore a faticare di più: tanto che si narra aver egli predicato fino a sette volte in un giorno, ed il suo parlare, ciascuna Volta, esser durato un’ora in circa. Finalmente, mi conviene aggiugnere che, per venti anni circa, sostenne il laborioso uffizio di esporre la sacra Scrittura con pubbliche lezioni, recitate nella chiesa del Gesù; e lo sostenne con quello studio, del quale è chiara prova la molta e soda dottrina, che troviamo ed ammiriamo nelle delle lezioni, da lui divulgate poscia colle stampe; e fu udito con tanto applauso e tanto concorso, che maggiore non lo avevano avuto que’ sommi uomini della Compagnia di Gesù, i quali in così arduo incarico gli erano stati antecessori. (DF)

Il ritratto che ci dà Della Fanteria ha tono di verità, e corrisponde alla psicologia di un uomo capace di forte comunicativa, non certo un freddo causistico o compilatore. Più volte nella sua vita, come vedremo, è nelle situazioni più difficili, se non drammatiche, che il Marchetti dimostra la maggiore energia, la massima intensità operativa e di pensiero. In questi anni, nel pieno della sua maturità, dispiega in effetti un’eccezionale capacità di lavoro, dai pubblici catechismi, alla direzione di congregazioni e compagnie per l’i­stru­zione religiosa, da esaminatore del clero di Roma, di Sabina e Palestrina, a teologo di un cardinale in carica, a datario dei benefizi ecclesiastici della casa Colonna, ma soprattutto Presidente della venerabile Casa e Chiesa del Gesù, dal 1797 fino a quando nel 1814 la Compagnia di Gesù fu ricostituita. Impegno quest’ultimo particolarmente delicato, in quanto si trattava di presiedere e amministrare la comunità degli ex gesuiti, che precedentemente erano in quel luogo padroni, e vi avevan goduto di tanta estimazione ed onore (DF).

 

“Che importa ai preti?”

Alla fine del 1796 il Marchetti pubblicò anonimo un opuscolo: Che importa ai preti? Ovvero l’interesse della religione cattolica ne’ grandi avvenimenti politici di questi tempi…, s.l. né d. (inserito anche nel Supplemento, IX 1797, pp. 3–185).

Marchetti tornava sull’argomento della Rivoluzione, mostrando come lo scopo di essa era la distruzione non solo delle monarchie, ma anche della religione cattolica, il tutto pre­sentato sotto un programma di progresso e di riforma.

Il libro divenne un vero e proprio best-seller, con decine di edizioni e traduzioni all’estero: e in effetti l’efficacia evocativa e quasi visionaria è quella di un romanzo, in cui la crisi rivoluzionaria del 1789 è pianificata sin da 3 secoli prima da centrali occulte che intessono sotto gli eventi una trama inesorabile, imponendo infine un’ideologia che da una parte si rivolge in quanto tale alle classi colte, dall’altra al popolo, in forma propagandistica e di induzione dei miti dell’eguaglianza e di un’era di felicità per tutti.

Di fronte alla resistenza, soprattutto in Italia, superiore al previsto, viene adottata la tattica di fingere rispetto per la religione cattolica, riconoscendole un ruolo civico ed un’autorità morale. Per il Marchetti ciò nasconde un’insidia piú sottile e un piano a piú lunga scadenza, ma con identico fine dissolutore. Per lui la Rivoluzione andava combattuta  senza quartiere da parte della Chiesa, non offrendo ad essa alcuna copertura, alcuna legittimazione, anzi mettendosi a capo «del generale sollevamento di tutti i popoli della cristianità» contro gli oppressori francesi.

In seguito il Marchetti assunse posizioni piú differenziate, ipotizzando una convivenza con i nuovi governi democratici e affermando che la Chiesa non privilegia le monarchie, ma giudica «buono quel governo, ove la virtú è rispettata e protetta, ed ove la giustizia rende unicuique suum»; a sua volta, lo Stato democratico, ancor piú di quello assoluto, ha bisogno della religione cattolica, per costruire un consenso morale e sui valori della democrazia stessa.

Intanto, proprio quel 1796 doveva dare alle previsioni di Marchetti la peggiore conferma, con l’esportazione militare della rivoluzione: c’era da aspettarsi che la componente antireligiosa ed antipapale, espressa brutalmente nell’attuazione della Costituzione civile del clero e nell’incameramento dei beni ecclesiastici, fino alle feroci decimazioni di religiosi e suore, portasse l’attacco al cuore della cristianità. Di qui un dispiegarsi di iniziative di mobilitazione e diplomatiche, ma anche il predisporsi, da parte delle locali componenti filogiacobine o bonapartiste, ad agevolare ed accogliere gli invasori.

 

I miracoli mariani del 1796

Si situa qui (dal giugno 1796 all’inizio del 1797), mentre le armate napoleoniche dilagavano per l’Italia, un complesso di episodi, in cui la narrazione deve cedere ad un rispettoso stupore. L’evento si colloca circa a metà della vita adulta di Giovanni Marchetti, e ne resta come un cuore irradiante.

Si tratta dell’ondata di miracoli mariani, avvenuta nel corso di alcuni mesi, con un andamento a sciame, nei territori dello Stato della Santa Sede –ma non solo- e soprattutto a Roma. Nella città più di 100 immagini della Madonna –ma non solo- esposte in chiese, conventi, case private ed edicole stradali, anche modestissime, furono viste muovere gli occhi, mutare espressione, e questo al cospetto di migliaia di testimoni.[3]

Il primo miracolo –definito poi tale alla conclusione del relativo puntiglioso processo- si manifestò il 25 giugno, ad Ancona, ove la Madonna di S.Ciriaco iniziò a muovere le palpebre e volgere il proprio sguardo ai fedeli. Il prodigio continuò per mesi e pare abbia turbato lo stesso Napoleone il quale, invasa la città nel febbraio 1797, dopo aver ordinato di sequestrare l’immagine, ci ripensò e la fece soltanto coprire (come nel 1801 restituì al Santuario oltraggiato e saccheggiato la Madonna di Loreto sequestrata nei depositi del Louvre).

A Roma il prodigioso animarsi delle immagini mariane inizia il 9 luglio 1796, con la Madonna Mater Misericordiae detta “dell’Archetto”. La festa ricorrenza del 9 luglio e il piccolo prezioso Santuario che sotto tale nome la conserva e l’onora, realizzato nel 1851, sono tra le poche memorie di quella serie di eventi unica nella storia del cristianesimo.

Nella città commozione e devozione furono enormi e diffusi in tutti i ceti, tanto che il clero, più che a sollecitarle, si trovò a moderarle, nelle more della prescritta istruttoria di accertamento sulla veridicità dei fatti e sulla loro possibile origine sovrannaturale.

 

Cappella Santuario della Madonna dell’Archetto. Roma

 

Di raccogliere le prime risultanze di tali processi fu incaricato –come figura di prestigio intellettuale e morale indiscusso- proprio Giovanni Marchetti, che in precedenza aveva pubblicato una raccolta di lettere relative al miracolo di Ancona.

Il suo lavoro, di descrizione dei fatti e presa d’atto delle relative istruttorie e testimonianze, è esposto in De’ prodigi avvenuti in molte sagre Immagini e specialmente di Maria Santissima secondo gli autentici processi compilati a Roma. In esso prospetta un primo elenco di 26 immagini “approvate”, di altre 46 in corso di esame, e di altre 30 segnalate.

Non è qui la sede per confutare le scontate –oggi come allora- contestazioni nel merito dei fatti (ardue in verità, a meno di non pensare ad una complicità estesa in molti luoghi e a tutti i livelli), e nella loro motivazione, che li attribuisce ad una psicosi di massa dovuta ai terrori dell’invasione napoleonica e attizzata dal fanatismo clericale. Va detto comunque che l’attenzione e l’emotività popolare verso fenomeni mistici fu più di disturbo che altro nelle delicate fasi di approccio all’invasore, o addirittura di sviamento rispetto a mobilitazioni più persuasive ed efficaci.

Marchetti per parte sua richiama gli impressionanti dati quantitativi, circostanziali e testimoniali, di episodi svoltisi in una città di allora 180.000 abitanti, in cui una trama d’inganni non poteva quindi essere celata, tanto più sotto l’osservazione di componenti anticattoliche, già predisposte a favorire l’incombente invasione napoleonica. Più in profondità, trovò nella vicenda il conforto alla saldezza della fede popolare, a quella profonda identità cattolica del popolo italiano, sua testimonianza e missione storica.

Dopo il trattato di Campoformio, le armate napoleoniche volsero decisamente al centro Italia, e il 10 febbraio 1798 entrarono in Roma, dove il successivo 15 fu proclamata la Repubblica Romana, imprigionato e tratto il Papa in esilio,

ove morrà due anni dopo, dopo un calvario di sofferenze fisiche e morali. Continuò, con maggiori tesori a cui attingere, il saccheggio di beni ed opere d’arte. Anche molte immagini, compresi modesti venerati tabernacoli furono profanati e distrutti. La rivolta dei trasteverini del 25 febbraio fu repressa brutalmente dalle truppe d’occupazione, mentre la città veniva sfigurata da alberi della libertà e scenografie paganeggianti.

 

Festa della Rigenerazione di Roma (inc. Piroli)

 

Occupata, dopo tanti e sì bassi intrighi e tante violazioni d’ogni diritto, dalle soldatesche francesi la città di Roma, e proclamata la ridevole repubblica romana, il Marchetti fu arrestato a di 26 di febbraio 1798 nelle sue stanze del Gesù, e condotto immediatamente in Castel S. Angelo, vi stette prigione trenta e più giorni. (..)Non gli fu detto qual fosse il perché della sua cattura, la quale certamente avrà avuto origine dal timore dell’influenza, che, principalmente col predicare, aveva acquistata grandissima sopra il popolo romano. Poscia gli significarono che volesse discolparsi; il che fu da lui effettuato con dignitosa scrittura, ove fra l’altre cose diceva: “Io non ho fatto niente più che il mio dovere, e non sento rimproveri di non averlo adempito. Non mi sono mai proposto di procacciarmi il mantenimento e gl’impieghi per le vie oziose e vili dell’intrigo, delle protezioni, delle arti moltissime di emergere senza merito in una gran metropoli. Il paese ha pensato a me più che non ho meritato ed oltre a’ miei bisogni e desideri: ma non potrà comparir veruno, al quale io abbia rammentato me stesso. (DF)

Liberato dopo un mese, fu esiliato perpetuamente dal territorio della repubblica. La misura di polizia, che si ripeterà in seguito, conferma la diffusa fama -–certo non infondata- del suo ascendente e impegno antirivoluzionario.

È il momento del suo ritorno in patria, presso il convento dei carmelitani di Corniola, nel verde della campagna empolese.[4]

 

 

Lunetta nel chiostro del convento carmelitano di Corniola. Storie di Sant’Elia, ignoto XVII secolo

 

Quivi, fatta provvisione copiosa di libri, viveva in una solitudine sí tranquilla ed a lui tanto cara, che vi si fabbricò un piccolo quartiere, e desiderava menarvi in pace tutto il resto della sua vita. (DF)

Ma non doveva essere cosí. L’anno 1799, deposto il granduca da parte dei francesi, inizia da Arezzo il 4/5 maggio l’eroica insorgenza del Viva Maria, una pagina gloriosa di resistenza popolare opportunamente rimossa dalla narrazione storica ufficiale, e solo da qualche anno recuperata (non senza contrasti) alla memoria nazionale.

L’insorgenza si diffuse anche in altre zone della Toscana, tra cui Empoli (che anzi precedette di un giorno quella di Arezzo) dove non ebbe sviluppi cruenti, ma si risolse in un’operazione di polizia, che individuò Marchetti come un pericoloso promotore occulto.

 

Empoli 1799 Intestazione dell’editto militare dopo i tumulti antifrancesi

 

Circa la mezza notte de’ 17 alli 18 di maggio del 1799, mentre era malato di febbri periodiche molto forti, vennero ad arrestarlo, e condottolo cosi infermo a Firenze, lo misero in prigione. Ancor questa volta non gli fu indicato motivo alcuno di sua carcerazione, e gli si fece soltanto subodorare qualmente avevasi sospetto che fosse stato presente ad un tumulto, avvenuto in Empoli pochi giorni innanzi, e vi avesse eccitato il popolo a sedizione.  […]

E de’ nobili e san­ti suoi pensieri ed affetti, in que’ giorni d’an­gustia, rendono bella testimonianza alcune carte, nelle quali, stando in carcere, scrisse sublimi e pie riflessioni sopra i vantaggi de’ patimenti e delle croci, ed anche una canzone […]. (DF)[5]

Dodici giorni dopo il suo arresto gli fu concesso di scrivere al presidente Rivani, e la sua autodifesa risultò convincente, tanto che fu liberato il 10 giugno, per tornare al suo ritiro di Corniola, dove però non restò molto, visto che, uscite di Toscana le truppe francesi, lo ritroviamo a predicare, a dirigere missioni ed esercizi spirituali, anche a Livorno e a Lucca, mentre sia il Papa che alti personaggi si rivolgevano a lui per consultazioni e pareri.

Si dedicò in questo periodo a varie opere, alcune commissionategli da Pio VI, altre che dettero non poco disturbo alla curia stessa, quale un’analisi della finanza della Chiesa Del danaro straniero, che viene a Roma, e che ne va per cause ecclesiastiche: calcolo ragionato… (s.l. [ma Lucca] 1800).

 

Le “metamorfosi”

Gli anni di passaggio del secolo sono anche quelli in cui Marchetti, quasi a contraltare di una situazione così drammatica su piano generale e personale, svolge una riflessione sull’uomo e sulla storia nella prospettiva della fede, che non è certo rassegnazione, ma che li inscrive in un disegno misterioso. Egli riprende quindi il tema dell’ideologia rivoluzionaria non più nell’immediatezza politica, di cui aveva sotto gli occhi la sconvolgente evidenza e le contraddizioni anche in seno alla società cristiana e alla Chiesa, da lui prospettate con chiarezza e per tempo; ne prende invece distanza e interroga la storia dell’uomo nei suoi abissi e nel suo enigmatico cedimento alle forze del male; si tratta dell’apologo Delle Metamorfosi vedute da Basilide l’Eremita sul terminare del secolo XVIII (Roma 1799).

Non occorre più risalire allo scenario complottista di Che importa ai preti..?, la rivoluzione (le rivoluzioni) corrisponde perversamente al mito e alla tentazione di “farsi felici nel mondo e senza Dio”, alla ricerca della felicità come tensione ad ogni bene non ancora posseduto, in un miraggio di felicità definitiva per la quale tutto si cede, la dignità, la pietà, la giustizia. La visione di Basilide (il nome stesso, in sottotesto, con gli Pneumatici e i Biscioni, evoca gli scenari delle sette gnostiche) riguarda una specie di popolo innocente che vive in rigoglioso paese in un tripudio di felicità. Tale rigoglio e felicità si degerano presto in deserto, sofferenza e terrore, anche se i “cittadini” sono obbligati a continuare a dirsi felici. Il paese è dominato da una casta differenziata al proprio interno per forme grottesche e funzioni: al vertice sono gli Pneumatici o Nuvoloni, poi i Biscioni, poi le Vesciche, poi i Nuvoloncini. Quando la visione scompare l’eremita ne trae le conclusioni: “Dio non ha fatto l’uomo per essere completamente felice in questo mondo”, l’ossessione della felicità è l’inganno indotto dai mostri, nuova metamorfosi della Bestia.  Anche l’illusione di essere tutti a comandare espone all’irruzione di nuovi mostri; in sostanza, conclude realisticamente Marchetti, non è la forma di governo che conta, ma la tenuta, l’unità, la vigilanza morale e religiosa della parte sana della società.

Altrove Marchetti aveva messo per iscritto, con toni da predicatore, immagini simili:

“Alla storia dell’uman genere mancava questo spettacolo che esseri ragionevoli nuotassero a torme nella confusione e nel sangue, nell’incertezza, nella desolazione, nel gran caos, ripetendo intanto macchinalmente felicità felicità.”[6]

In La Provvidenza (1798) Marchetti aveva attaccato un altro mito della modernità, “la seduzione della prosperità”, utilizzando materiali attinti –dice nella presentazione del libro – dalle sue prediche in occasione “della ricorrenza memorabile del nostro dì 9 luglio” (festività in memoria dei miracoli mariani del 1796).

Morto in cattività Pio VI, ed eletto a Venezia nel marzo 1800 Pio VII, iniziano con il suo rientro a Roma i 13 anni del confronto diretto tra il Papa e Napoleone, prima con caute speranze di normalizzazione (1801 Concordato francese), attraverso il coinvolgimento nell’Incoronazione (1804), poi il progressivo precipitare degli eventi(1808/9) con l’occupazione di Roma e l’annessione dei resti dello Stato della Chiesa, fino alla bolla di scomunica, l’arresto del Papa e la sua prigionia.

Anche il Marchetti nel 1800 era rientrato a Roma, ove riebbe il rettorato della casa del Gesú, riprese le missioni popolari e l’organizzazione di esercizi spirituali, oltre alla pubblicazione di studi e testi di esegesi biblica. Nel libro Trattenimenti di famiglia su la storia della religione e con  le sue prove (Roma 1800) il polemista accanito e puntiglioso mostra un volto dolcissimo, che effonde intorno a sé serenità e speranza. Nella dissertazione Della socialità della religione cattolica (Roma 1804), reagendo alla situazione confusa e apparentemente irreversibile, svolge un’argomentazione al positivo, in cui la Chiesa, di fronte all’arrogante pretesa di Napoleone di farne suo strumento di potere, si colloca come dimensione spirituale in cui operare il bene comune. In questo testo si prospetta compiutamente la visione politica di Marchetti, sulla quale torneremo in seguito, e la cui influenza andò oltre i limiti della sua vita e della sua stessa opera.

Che egli venisse considerato da parte francese e delle repubbliche napoleoniche uno degli avversari piú pericolosi, per l’intransigenza, il prestigio e l’incorruttibilità, lo dimostra il fatto che, a seguito della scomunica pronunziata da Pio VII contro Napoleone nel 1809, il Marchetti fu a rischio della vita, in quanto, secondo la testimonianza del cardinal Pacca, il ministro Saliceti, accecato dalla rabbia e nell’eccesso della collera, aveva proposto di far subire l’ultimo supplizio al cardinale Mattei ed al dottor Marchetti, come autori, o come consiglieri ed istigatori del passo fatto. (DF)

Non si arrivò a tanto, ma nel frattempo Marchetti era stato di nuovo fermato, portato in Castel S. Angelo ed espulso da Roma.

Ma non si tosto era giunto in Toscana, che si vide improvvisamente arrestato, e fu condotto, come a luogo determinato di esilio, all’isola d’Elba. Il quale rilegamento, stante la buona conversazione de’ molti e pregevolissimi compagni del suo infortunio e la benevolenza e rispetto singolare, che gli dimostrarono le piú distinte persone di quel paese, anziché di pena gli serví come di piacevole villeggiatura. (DF)

Del resto fu presto liberato per un indulto emanato dalla granduchessa Elisa Bonaparte. Tornò a Corniola, ma, a seguito dell’abolizione delle comunità religiose, dovette abbandonare il suo eremo e, ogni volta inseguito dal sospetto d’essere implicato e fomentare i movimenti di opposizione e ribellione, peregrinò in varie località della Regione, fino all’inizio del 1814, quando cadde il regime napoleonico in Toscana.

 

Ingresso trionfale di Pio VII a Roma, 25 maggio 1814. Tommaso Minardi, inc. G.B. Romero. Roma, Museo napoleonico

 

Frattanto la mano onnipotente di Dio maturava gli alti disegni di un prodigioso ristabilimento del sovvertito ordine religioso e sociale, e ridonava alla Chiesa la pace ed al romano Pontefice la sua sede. I malvagi si nascondevano per la confusione, si vergognavano i vili, e gli uomini coraggiosi e fedeli tornavano esaltanti e fra gli applausi a que’ posti, da’ quali una forza arbitraria ed ingiusta gli aveva sbanditi. Era fra questi il Marchetti, e tornò in Roma prima del trionfale ingresso di Pio VII, ma non senza qualche desiderio e speranza che, ottenuto un onorato riposo, gli fosse concesso di ritirarsi in patria e terminarvi i suoi giorni in quella vita quieta e metodica, della quale dopo tante fatiche e vicende trovavasi contento e lieto. (DF)

Quest’aspirazione, fosse o meno del tutto sincera, nemmeno questa volta ebbe ad avverarsi.

 

 

(2- continua)

 

[1]   Questo, come i successivi brani in corsivo siglati DF,  è tratto da: Luigi della Fanteria, “Biografia di mons.Giovanni Marchetti arcivescovo di Ancira» in Continuazione delle Memorie di religione, di morale e di letteratura, V (1836), pp. 257–299.

[2]   Si tratta di due versi del famoso poemetto “In morte di Ugo Bassville” ovvero “cantica Bassvilliana” scritto da Vincenzo Monti a seguito dell’uccisione a Roma, su una provocazione, dell’emissario del governo francese. Nel poemetto, che è considerato uno dei capolavori di Vincenzo Monti, s’immagina che l’anima di Bassville, guidata da un angelo, vada in Francia ed assista agli orrori della rivoluzione. Il testo evoca con suggestione preromantica le ombre dei filosofi che l’hanno propiziata (tra cui Giansenio) che si affollano intorno al re, presentato come martire cristiano. Il poemetto si conclude con l’affermazione vibrante dell’ l’identità controrivoluzionaria, basata sui valori di Fede e Carità. Va detto che già nel 1797 il Monti “si convertì” alla rivoluzione, propugnando con lo stesso ardore idee del tutto opposte (caratteristica costante della sua vita e opera).

[3]   Il libro Gli occhi di Maria di Rino Cammilleri e Vittorio Messori (ed.Rizzoli 2001) descrive la vicenda, nel suo svolgersi e nel suo possibile significato, per chi abbia la mente sgombra da pregiudizi. Cammilleri attinge al testo di Marchetti, che, oltre a ripercorrere le severe istruttorie che “approvarono” i miracoli, già contiene inoppugnabili argomenti contro la simulazione e le allucinazioni collettive. Messori interroga gli eventi alla luce di una storia “parallela”, che vede protagonista la Vergine, che sin dall’inizio e nel corso dell’800 sembra moltiplicare le sue attenzioni materne secondo un enigmatico calendario di apparizioni e gesti misericordiosi.

[4]   Il Convento di Corniola, sulle colline nei pressi di Empoli, fu costruito nel XVII secolo dai frati carmelitani a cui era stata affidata l’antica parrocchia e la chiesa dei Santi Simone e Giuda. Il complesso fu soppresso nel 1785 dal governo granducale e ripristinato nel 1791, poi di nuovo soppresso dai francesi nel 1808. I carmelitani scalzi vi poterono tornare nel 1934. Nel 2009 si è concluso il restauro delle lunette del chiostro, coeve all’edificio, con le Storie di sant’Elia protettore dei carmelitani. Ci piace pensare che Giovanni Marchetti le abbia contemplate nelle soste del suo lavoro.

[5]   Di Marchetti come autore di poesie e testi per inni e cerimonie sacre si trova menzione in varie cronache dell’epoca. Ecco le strofe del componimento poetico riportate da Della Fanteria:

Nella notte piú cheta

Forza mi trasse in questo carcer tetro,

Donde l’uscir si vieta

Quasi al pensiero: e in silenzio profondo

Mi parve a un tratto meco

Condotto quivi a seppellirsi il mondo.

Ma ben mi trovai teco,

Immenso Re, da cui mia forza impetro;

Né la muraglia forte,

O le ferrate porte,

Valsero a separar dal carcer mio

Un cuor tranquillo, la coscienza e Dio.

Allor girai d’intorno

Lo sguardo, e dileguossi il cupo orrore

Del nuovo mio soggiorno;

E qual uom che dall’atro sogno e fiero

Si desta all’aer puro,

Tal io ripresi il mio vigor primiero;

E placido e sicuro

Non sentii moto ad agitarmi il cuore,

Né a turbarmi la mente

Fantasima insolente,

E dissi: In faccia anche alla pena estrema

Il reo soltanto impallidisce e trema.

[6]   In “Il giornale ecclesiastico n.15, 17 aprile 1790 p. 59/60, citato in Alessandro Guerra, Contro lo spirito del secolo. Giovanni Marchetti e la Biblioteca della Controrivoluzione, Edizioni Nuova Cultura, 2012.

 

 

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