Lettera al Direttore di Gianluca Quagliani

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Egregio direttore,

il Russiagate pare essersi concluso con un nulla di fatto, ma anche l’assoluzione di Trump non risulta piena, come a voler lasciare un’ombra. Tutto pare più una questione politica che giuridica, dove nulla viene approvato, ma tutto avviene asserito come vero e come certo.

Ci aiuta a fare un po’ di chiarezza?

RingraziandoLa, se avrà la bontà di rispondermi, porgo cordiali saluti.

Gianluca Quagliani

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Egregio Signor Quagliani,

il tema che Ella mi chiede di affrontare è particolarmente delicato, perché coinvolge vari aspetti che si intrecciano tra loro: questioni di politica internazionale, con particolare riguardo all’atteggiamento occidentale e, più specificamente, statunitense nei confronti della Russia dopo il crollo dell’Unione Sovietica (26 dicembre 1991) e, soprattutto, dopo l’ascesa al potere di Vladimir Putin (31 dicembre 1999); questioni di politica interna statunitense; questioni giuridiche americane; e, infine, il ruolo dei principali mezzi di informazione negli Stati Uniti. Per ovvie questioni di spazio, non mi addentrerò sui temi più strettamente giuridici, che richiederebbero una trattazione a parte, con specifica disamina di quel sistema legale, così differente dal nostro; mi limiterò ad una trattazione a volo d’uccello delle maggiori questioni politiche, a mio modo di vedere di maggior interesse per la generalità dei lettori.

Dopo la fine della Guerra Fredda e, soprattutto, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, la Russia ha cessato di essere l’avversario geo-strategico degli Stati Uniti, ruolo che, in modo crescente, ha sempre più assunto la Cina. Questo mutamento di scenario è stato colto dai Presidenti repubblicani, ma non da quelli democratici, che hanno continuato a perseguire una politica anti-russa e filo-cinese. In estrema sintesi, essi hanno appoggiato l’Islam sunnita e Pechino, contro Mosca, l’Islam sciita ed Israele. La Presidenza di Bill Clinton (20 gennaio 1993 – 20 gennaio 2001) ha portato alla nascita del primo Stato islamico in Europa (Bosnia-Erzegovina) a scapito dei serbi ortodossi e dei croati cattolici; ha fatto penetrare il fondamentalismo wahabita nel Kosovo, in chiave anti-serba; ha fatto nascere e sviluppare il terrorismo fondamentalista islamico in Somalia (Corti islamiche, oggi Al-Shabaab); ha creato, con l’appoggio dottrinale finanziario dell’Arabia Saudita, i talebani afgani e li ha condotti, di fatto, al potere.

Con la Presidenza di George Bush junior (20 gennaio 2001 – 20 gennaio 2009), la politica estera Usa si è ribaltata completamente. Inizia un durissimo confronto con la Cina, che ha sfiorato il livello dello scontro militare, confronto interrotto unicamente dall’attentato delle Torri Gemelle (11 settembre 2001), che ha fatto dirigere gli Stati Uniti contro l’altro alleato della Presidenza Clinton: il fondamentalismo sunnita. Gli Usa intervengono in Afghanistan (7 ottobre 2001), al fianco della cosiddetta «Alleanza del Nord», appoggiata dalla Russia e dall’Iran, contro i talebani. Intervengono in Iraq (20 marzo 2003), che si era schierato con i talebani e con Al-Qāʿida, deponendo il sunnita Ṣaddām Ḥusayn ʿAbd al-Majīd al-Tikrītī (1937-2006) ed installandovi un Governo rappresentativo della maggioranza sciita e garantendo la fortissima autonomia della regione curda nel nord del Paese.

Con la Presidenza di Barack Hussein Obama (20 gennaio 2009 – 20 gennaio 2017), si assiste ad un nuovo rovesciamento della politica estera statunitense. Gli Usa iniziano una fortissima politica anti-russa in Europa, appoggiando gli ex Paesi del patto di Varsavia e le ex Repubbliche sovietiche ad aderire all’Unione europea ed alla Nato. Si ritirano dall’Iraq (18 dicembre 2011), cessando di sostenere il locale Governo sciita. Lanciano le cosiddette «Primavere arabe», vale a dire fomentano e sostengono la rivolta contro i regimi “laici” del Nord Africa e di Siria, che portano al potere i partiti islamisti, anche se per periodi relativamente brevi, in Tunisia ed in Egitto e gettano nella guerra civile Libia e Siria, oltre a produrre gravi disordini, sia pur facilmente repressi, in Marocco.

In questo clima, con una Russia notevolmente rafforzata, sia sul piano interno che su quello internazionale, inizia la campagna presidenziale per le elezioni del 2016 negli Stati Uniti. In campo democratico, Hillary Clinton, moglie dell’ex Presidente Bill ed ex Segretario di Stato della Presidenza Obama, pare immediatamente non avere rivali. Si è contraddistinta come il super-falco anti-russo dell’Amministrazione uscente.

In campo repubblicano, invece, la situazione si presenta confusa e nessun candidato pare avere forza sufficiente ad imporsi e, soprattutto, il carisma necessario ad affrontare quella che pressoché tutti i maggiori organi di stampa danno come sicuro futuro Presidente. In questa crisi, si affaccia Donald John Trump un ricco immobiliarista, senza esperienza politica, con passate simpatie per la destra del Partito democratico. Il suo approccio non è quello repubblicano classico, ma unisce al conservatorismo sui valori eticamente sensibili (contrarietà all’aborto ed all’omosessualismo, in particolare) una lettura pragmatica della realtà e dell’economia che lo avvicina ai cosiddetti «movimenti populisti» europei, sia pure in un contesto culturale da destra popolare americana.

È evidente che il Cremlino esprima subito le sue preferenze per questo astro nascente della politica Usa, che, oltre a rappresentare il più serio ostacolo alla conquista della Casa Bianca da parte di Hillary Clinton, non nasconde di considerare la Russia un partner degli Stati Uniti, a differenza della Cina, nella quale vede l’avversario geo-strategico. L’appoggio russo per lui è incondizionato, sia durante le primarie che durante le elezioni.

A partire dal 19 marzo 2016, lo staff della campagna elettorale di Hillary Clinton denuncia violazioni informatiche ai suoi danni, con pubblicazioni di notizie e file riservati in rete. I servizi di sicurezza dell’Amministrazione Obama identificano subito nella Russia e nei suoi servizi di informazione i responsabili di tali attacchi. A partire dal 17 giugno dello stesso anno WikiLeaks, il sito fondato e diretto da Julian Assange, pubblica buona parte dei file trafugati dai computer del Partito democratico.

Nonostante che lo scandalo continui a montare, l’8 novembre 2016 Donald Trump viene eletto Presidente. Da quel momento, è un susseguirsi di accuse penali nei confronti dei suoi più stretti collaboratori e di accuse giornalistiche nei confronti dello stesso Presidente e del suo staff elettorale. Tutti i maggiori mezzi di comunicazione danno per certa e per dimostrata la colpevolezza dell’inquilino della Casa Bianca; tutti i rapporti della CIA e dell’FBI citati dai più importanti mezzi di comunicazione del mondo sembrano inchiodare Trump; si parla con sempre maggiore insistenza di messa in stato d’accusa del Presidente, non solo tra i democratici, ma anche tra molti repubblicani, che hanno mal digerito l’arrivo ed il successo di questo “intruso”. La politica estera degli Stati Uniti è ostaggio di questo clima, che ricorda molto da vicino quello del Watergate, lo scandalo che costrinse alle dimissioni da Presidente Richard Nixon (1913-1994). Questa situazione ha, sul piano internazionale, costretto Trump ad un atteggiamento pregiudizialmente ostile alla Russia, proprio per cercare di non dare nuovo alimento alle accuse contro di lui in Patria.

Tutto questo fino al colpo di scena finale: Robert Swan Mueller, nominato il 18 maggio 2017 dal Presidente, su pressione e di gradimento dei democratici, Procuratore speciale per le indagini sui presunti legami illeciti tra il Comitato elettorale di Trump e la Russia, ha depositato il suo rapporto finale (24 marzo 2019), nel quale dichiara non esserci la benché minima prova di un coinvolgimento dell’allora candidato repubblicano alla Presidenza e/o di membri del suo staff elettorale in attività illecite o in rapporti illegali con Mosca e/o i suoi servizi segreti.

È di ogni evidenza che, nonostante Mueller si sia affrettato ad affermare che il suo rapporto non afferma che ci siano prove dell’innocenza di Trump, ma solo che non ve ne siano della sua colpevolezza, questo epilogo ridona all’attuale amministrazione statunitense parte, se non tutta, della sua autonomia in politica estera.

Ci possiamo augurare che questo rilanci una politica di collaborazione, non solo sotterranea, ma anche pubblica tra Washington e Mosca, collaborazione di cui si sente particolarmente la necessità, soprattutto di fronte alla crescente potenza cinese.

 

 

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