Quelle campane che suonavano per i vivi e per i morti…

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di Pucci Cipriani

 

Nessun uomo è un’isola

completo in se stesso;

ogni uomo è un pezzo del continente,

una parte del tutto.

Se anche solo una nuvola

venisse lavata via dal mare,

l’Europa ne sarebbe diminuita,

come se le mancasse un promontorio,

come se venisse a mancare 

una dimora di amici tuoi,

o la tua stessa casa.

La morte di un qualsiasi uomo mi sminuisce,

perché io sono parte dell’umanità.

E dunque non chiedere mai

per chi suona la campana:

essa suona per te.

(John Donne – Meditazione XVII Nessun uomo è un’isola)

 

Il verso “per chi suona la campana” della bellissima poesia di John Donne (1572 -1631), che è lo specchio – come nota Cristina Campo – di un’epoca della storia inglese, quando l’essere cattolici venne interdetto durante il regno di Elisabetta I, fu scelto da Ernst Hemingway come titolo e “chiusa” del suo capolavoro: Per chi suona la campana, appunto, un romanzo che si svolge durante la Guerra Civile spagnola.

Quanto importante sia per la comunità civile – e non solo per i cattolici – il suono delle campane ce lo dice la Storia. Forse pochi sanno, ad esempio, che la Campana di Mezzogiorno , quella che a Firenze chiamano (o forse “chiamavano”) «la Campana della Pastasciutta», suona, in realtà, per ricordare la vittoria della Flotta Cristiana – comandata dal fratello bastardo di Filippo Il, l’eroico don Giovanni d’Austria (1629 – 1679) – nelle acque di Lepanto (7 ottobre 1971) : «ultimo capitolo dell’antico scontro tra Oriente e Occidente (che) acquista oggi un significato particolare, in quanto la vittoria della Lega Santa divenne la pietra miliare sulla quale si autolegittimerà l’egemonia occidentale e di cui si nutrirà la volontà di riscatto del mondo islamico nei secoli a venire» come scrive  lo storico Niccolò Capponi, nel più bel libro (immensa documentazione d’archivio vista anche dalla parte dei “turchi”) mai scritto su questa battaglia (cfr. Niccolò Capponi, Lepanto 1571: la Lega Santa contro l’Impero Ottomano, Il Saggiatore)

E proprio Niccolò Capponi, a proposito di “campane”, mi poté dare, anni fa, queste simpatiche note a proposito del suo avo Pier Capponi: quando, di fronte all’arroganza di Carlo VIII che minacciò di invadere Firenze al grido di «Noi suoneremo le nostre trombe», rispose impavidamente «E noi suoneremo le nostre campane»…mettendo così le ali ai piedi al presuntuoso Re francese, per cui, ironizzando sulla fiera risposta del Capponi, Machiavelli chiosò: «Lo strepito dell’armi e de’ cavalli / non poté far che non fosse sentita / la voce d’un Capponi tra tanti galli / tanto che il Re superbo fé partita”  e anche Giuseppe Giusti volle dir la sua . “Fra gli altri dilettanti oltremontani / per infilarmi un certo re di picche / ci si messe co’ piedi e colle mani / ma poi rimase lì come Berlicche / quando un Cappon, geloso del pollaio /gli minacciò di fare il campanaio”.

E il suono delle campane iniziò a toccare il cuore di un mangiapreti toscano, un miscredente autore, niente meno che del famigerato «Inno a Satana» di quel Giosué Carducci – poi divenuto un “innamorato della Madonna” negli ultimi anni di vita – allorché fu colto da una gran nostalgia e da una profonda commozione quando sentì il doppio di una campana della Romagna che suonava l’Ave Maria: «Salve chiesetta del mio canto.  A questa / madre vegliarda, o tu, rinnovelata / itala gente dalle molte vite / rendi la voce / de la preghiera: la campana squilli – ammonitrice: il campanil ritorto / canti di clivio in clivio alla campagna / Ave Maria…”

Del resto chi è che non ricorda quando, bambini, ascoltavamo le note di «San Martino campanaro / dormi tu? Dormi tu? / suona  le campane, suona le campane/ din ! don ! dan! din! don! dan!» o quando – e quanti, quanti anni son passati – ragazzini aspettavamo il sabato sera, il giorno in cui ci era concesso di assistere al Musichiere, lo spettacolo musicale condotto da Mario Riva, che si concludeva con la sigla di quella bella e famosa canzone che ci faceva vivere la gioia della vigilia festiva e assaporare il mattino della festa: «Domenica è sempre domenica / si sveglia la città con le campane/ al primo din don sul Gianicolo / Sant’Angelo risponde din don dan!».

Il nostro Giorgio Batini fece il verso al romanzo «Per chi suona la campana» e pubblicò il suo «Per chi suona la Toscana» in cui scriveva: «I bronzi dei campanili hanno suonato, nei secoli, per la nascita, i prodigi, la salita al cielo di un grande popolo di Santi (…) hanno suonato nei secoli, per chiamare a raccolta i cittadini a difendere i liberi comuni, le libere Repubbliche (…). Quello delle campane era un suono che dominava su tutti gli altri suoni cittadini, dato il gran numero di bronzi che ornavano i campanili e le torri civiche vantato da ogni città (…) i bronzi della Toscana hanno suonato per i riti della fede, per le ore del lavoro, per la legge e la giustizia, per la salvaguardia dei beni, per la difesa della libertà…». (Cfr. Giorgio Batini in Per chi suona la Toscana, Edizioni Polistampa, Firenze 2007).

E le mie campane, le campane del mio caro Mugello? Ce ne parla il professor Rino Gori, di Rignano, già Preside nelle Scuole della Toscana, in una sua lettera del 2005 dove commentava il mio libro: L’altra Toscana: Diario di un Conservatore, una bella lettera che ho pubblicato, poi, in un altro suo tomo del 2013:

«Caro Cipriani, il Suo libro L’Altra Toscana: Diario di un Conservatore è molto bello e si legge con molto piacere per i ricordi che suscita, per le speranze che abbiamo cullate (…) io sono con Lei fin dalle prime pagine. Quando Lei vide la luce a Borgo San Lorenzo, io avevo diciassette anni. Allora dimoravo nei pressi di Monte Senario, frequentavo molto spesso il convento dalla cui cisterna si gode una bella vista sul Mugello, con in primo piano il panorama di “Borgo”. 

A quell’epoca i paesi di campagna si somigliavano tutti sotto certi aspetti: chi può dimenticare, infatti, i rintocchi delle campane che ci richiamavano alla preghiera a quasi tutte le ore? Ci invitavano a recitare l’Angelus Domini tre volte al giorno: All’Ave Maria dell’Alba, a Mezzogiorno, alle “ventiquattro” (al tramonto). Alle ventuno del venerdì venivano a ricordare l’Ora della Redenzione (Morte di Croce). Alle ventitré ci esortavano a recitare il Credo. All’ “un’ora” (prima della notte) ci ammonivano di pregare per i poveri morti. Alla vigilia delle feste solenni le campane suonavano a distesa a distanza di ogni ora, rallegrando i nostri pomeriggi e i nostri animi… e poi ogni tanto quel suono “a morto” che annunziava che uno di noi se n’era andato e che bisognava pregare per lui e per i suoi familiari, quindi ancora la campana con i mesti rintocchi dava l’ultimo addio (“ad Deum” ovvero un “ci rivedremo” al cospetto di Dio); e quel suono era triste e consolatorio a un tempo (…) 

Il suono delle campane evocava tanti sentimenti e tanti ricordi. Neri Tanfucio (alias Renato Fucini), al rintoccar di non so quali campane, pensava ai suoi morti, al Ceppo, alla Befana ed agli anni suoi che erano passati “a volo”: si metteva il capo tra le mani e avrebbe baciato la fune delle campane ma poi concludeva con un’inaspettata e dissacrante battuta:

Però non so capì, Dio mi perdoni

come diavolo mai faccino i preti

a trovare ‘r coglion che gliele suoni

(Cfr. Pucci Cipriani in La Memoria negata: appunti per una storia della Tradizione in Italia, Solfanelli 2013).

 

Già, ma ora non c’è più bisogno del campanaro ( e quanto rimpianto per quelle figure caratteristiche ormai scomparse!) e certo, davvero, non si sarebbe trovato – neanche con la manovalanza “a basso prezzo” e ” a termine” come oggi – chi potesse suonar «la squilla della sera / che dolcemente invita alla preghiera», come recita una bella laude mariana, come non si troverebbe chi potesse suonare “a morto”, con il rintocco triste, o “a distesa”… ora basta girare una chiavetta, e le campane “vengono programmate” per suonare quando si vuole e ciò che si vuole e, del resto, grazie alla tecnica, il suono delle campane non è scomparso (anche se il suono non è melodioso e squillante come un tempo!) e stupisce come, ad esempio a Borgo San Lorenzo, nel mio amato paese, i morti non ricevano più dalle campane, ovvero dal campanile sotto il quale hanno vissuto, quell’ultimo saluto. No, oggi, qui da me, il suono “a morto” è vietato, disturba, innervosisce, intristisce… meglio la voce sguaiata del muezzin che bercia a squarciagola dall’alto del minareto che, tra breve, sostituirà il nostro campanile. Che i morti se ne vadano senza scocciare. E quante persone si rivolgono a me che son solo uno che scrive “sulla carta stampata” e mi domandano con infinita tristezza: ma possibile che quando c’è un lutto esso non venga segnalato, come una volta, a conforto dei familiari, e per rispetto del defunto, dal suono delle campane? Le “campane a morto” dunque… Questo voler togliere i simboli della morte, il rifiutare di “addomesticarla” come si faceva un tempo, ma cercare di “nasconderla” come si nasconde la polvere sotto i tappeti, non è che un ritorno al paganesimo; oggi la morte è “scandalosa”, si preferisce non parlarne, cambiare discorso, “ghettizzare” i parenti del defunto, che creano imbarazzo, cercare di nasconderla, abolendo l’uso dei paramenti neri o del suono delle campane.

Philippe Ariès, forse il più importante storico francese, in un suo importante studio, afferma che facendo così si fa una grande confessione di impotenza: «Non ammettere l’esistenza di uno scandalo (…) fare come se non esistesse, e quindi costringere senza pietà le persone accoste ai morti a tacere. Un pesante silenzio si è venuto così a distendere sulla morte…(e) questo atteggiamento non ha annientato né la morte né la paura della morte: Al contrario ha lasciato che tornassero subdolamente vecchi elementi selvaggi sotto la maschera della tecnica della medicina. La morte all’ospedale, irta di tubi, sta diventando oggi più terrificante del cadavere in decomposizione o dello scheletro delle retoriche macabre» (Cfr. Philippe Ariès, L’uomo e la morte dal Medioevo a oggi”, Oscar Mondadori 1980 – pagg. 730 -731).

 

La torre campanaria della romanica pieve di San Donato in Poggio, dove ancora si celebra la Santa Messa nel rito romano antico

 

Quanto più bello e umano dunque non “nascondere” la morte, ma anzi, annunziarla con il suono delle campane come fa quel mio caro amico, il parroco di San Donato in Poggio, il prof. Don Luca Zanaga, che, con il triste rintocco suono delle campane ripetuto più e più volte, durante il giorno, quando scompare uno dei suoi parrocchiani, sembra far catechismo e ricordare a tutti che, dopo la morte, che chiede silenzio e rispetto, le campane suoneranno, l’Alleluia nel giorno della Risurrezione del Signore.

Ricorda, a questo proposito, il caro amico Tito Casini del giovane fiorentino Paolo Bartalesi – studente ginnasiale nel Liceo classico Galileo – deceduto a sedici anni, in odore di Santità, che, proprio dal Monte Senario, ove si trovava per gli esercizi spirituali, avvinto dalla misticità del luogo e dalla bellezza del paesaggio, sentiva i rintocchi mesti della campana che suonava “a morto” nella “verde vallata del Mugello” e componeva così, pochi mesi prima della sua morte per un incidente della strada, questi suoi versi, che furono anche gli ultimi :

Non so perché quando campana suona,

leggo alcunché di bello e vedo il cielo,

a gran mestizia il cor mi s’abbandona;

………………………………………………………..

“Domine” dice, “Exaudi vocem meam!”

chi nel bisogno trovasi; chi teme:

“Domine” dice, “exaudi vocem meam!”

Abbi pietà, Signor, del nostro seme

……………………………………………………………..

“requiem aeternam”, riposo verace,

da’ lor Signore, e fa’ che luce eterna 

risplenda ad essi, riposino in pace.

(Cfr. Tito Casini in Paolo Bartalesi, studente fiorentino, – SEI 1959).

 

Pisa, la Torre campanaria “pendente”

 

Spero anch’io di poter domandar ancora “Per chi suona la campana” del mio Longobardo campanile – ora che, da tanti anni, non ha più suonato seguendo l’iconoclastia conciliare -, fino a quel giorno che la gente dirà che la campana ha suonato per me.

 

San Gimignano “dalle cento campane”

Foto di Fabio Coppola

 

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