Il primato della ragione sul piano filosofico

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La centralità della religione umana sotto il profilo religioso

 

Il Cristianesimo, come abbiamo visto, pone la ragione umana quale presupposto indispensabile per la Fede e chiama i fedeli ad essere «pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi»[1]. È proprio questo il punto di maggiore scontro dottrinale tra Nostro Signore Gesù Cristo ed i farisei: questi ultimi si accontentavano della scrupolosa osservanza della lettera della legge, mentre Gesù pretende dai Suoi discepoli un’obbedienza da figli, che consiste nel far coincidere la propria volontà con quella di Dio, che, per definizione, è il bene. Per adeguare la propria volontà a quella dell’Onnipotente, bisogna conoscerla e, per conoscerla, occorrono criteri di valutazione che permettano di individuarla nel caso specifico. Tutto ciò è atto di ragione e la volontà interviene unicamente in fase attuativa.

Ma la ragione umana non interviene unicamente in campo morale, ma anche in campo metafisico: per conoscere la volontà di Dio, il suo comando nella specifica situazione della vita, occorre sapere chi Egli sia e chi sia io, il destinatario del suddetto comando. La ragione umana, quindi, è in grado di giungere alla verità o, almeno, di constatare di possedere le cinque evidenze universali: 1) l’esistenza delle cose ed il loro perpetuo divenire, 2) l’esistenza dell’Io, distinto dalle cose ed in grado di conoscerle tramite il pensiero, 3) l’esistenza di altri Io analoghi a me e con cui posso intrattenere relazioni intersoggettive, 4) l’esistenza di norme morali, basate sulla libertà e sulla responsabilità, che riguardano unicamente me e gli altri esseri analoghi a me, ma non le cose e, infine, 5) l’esistenza di Dio, quale origine di tutto ciò che esiste.

Queste evidenze sono universali proprio perché si manifestano come certezze indiscutibili, prima di ogni ragionamento, ad ogni persona umana, a qualunque popolo appartenga, non appena raggiunta l’età di ragione, vale a dire tra i cinque ed i sette anni. Si comprende, quindi, perché si è soliti affermare, in filosofia, che le evidenze non si dimostrano: il bambino di sette anni non è certo di queste verità perché persuaso da un’articolata dimostrazione razionale, ma perché esse si presentano alla sua mente (come quella di tutti gli altri esseri umani) nell’evidenza (da cui il nome) della loro rispondenza al vero.

Nonostante questa universalità, un unico popolo ha fatto scienza di queste evidenze, fino a trarne il suo carattere distintivo ed a donare al mondo un approccio razionale al vivere, divenuto, poi, anch’esso universale, proprio perché finalmente connaturato alla natura umana: parliamo, ovviamente, del popolo greco e della filosofia.

Anche altri popoli hanno avuto pensatori, uomini al cui modo di leggere la vita si sono ispirate generazioni, per secoli, quando non per millenni, uomini le cui parole hanno caratterizzato la civiltà di interi popoli; ma solo nell’Ellade si è forgiata una civiltà che ha sublimato le cinque evidenze pre-filosofiche nella consapevolezza che la ragione umana è in grado, proprio partendo da tali evidenze, di giungere al vero. È proprio il passaggio dall’opinione alla verità a caratterizzare la civiltà greca ed è da questo passaggio che nasce la filosofia.

Per gli scettici, i sofisti, i relativisti di ogni tempo, tutta la filosofia non sarebbe altro che il terribile atto di ὕβϱις (hübris)[2] di chi presume di «avere la verità in tasca», quando, per loro, essa non esiste e l’unico ambito in cui è concesso all’uomo di vivere è quello dell’opinione, vale a dire di un pensiero che, non avendo alcuna relazione con il vero, compiace unicamente gli istinti di chi lo formula e di chi lo condivide beandosene.

Quell’atto di enorme fiducia nella ragione umana, però, che è la filosofia, ha permesso ai greci di raggiungere le vette del pensiero, superate solamente dalla filosofia cristiana, che, fatta propria la filosofia dell’Ellade, l’ha elevata e perfezionata, ampliandone i già vastissimi orizzonti, tramite la luce della Fede.

La fiducia nella ragione comporta, inevitabilmente, la sottomissione ad essa di tutta la persona o, per essere più precisi, l’esaltazione della parte spirituale dell’uomo (la sua anima razionale), che rende, di fatto, gli istinti e la volontà meri strumenti della sua signoria. Questo approccio conduce ad orientare tutta la vita alla ricerca del vero, poiché lo scopo della ragione umana è, appunto, la conoscenza della realtà.

Per conoscere realmente ciò che è, è necessario sottomettersi all’oggetto della nostra indagine; occorre permettere alla cosa studiata di «impressionare il nostro cervello, come fosse una pellicola fotografica», si direbbe con popolare, ma efficace metafora. Questa attività, lungamente ripetuta, crea un abito mentale di costante, totale, assoluta prevalenza dell’oggettivo sul soggettivo, dell’oggetto esaminato sul soggetto che lo esamina, della realtà che ci circonda rispetto a noi che la guardiamo e, in ultima analisi, di Dio rispetto all’uomo. Si comprende, quindi, come l’approccio razionale filosofico alla vita, lungi dall’essere un atto di ὕβϱις (hübris), si concretizzi in un approccio di assoluta umiltà al vivere.

Questo sistema di pensiero parte dalle cinque evidenze universali, su cui, costruisce o, più correttamente, da cui scopre le regole che permettono alla realtà di esistere. Alle evidenze si cerca di dare una spiegazione tratta dall’analisi delle concrete realtà che ci circondano.

Il primo approccio è, quindi, un passaggio dalla certezza spirituale dell’evidenza alla sua spiegazione tramite la conoscenza sensibile della realtà. Ma, poi, per conoscere realmente e fino in fondo le cose è necessario concettualizzarle, cioè passare dalla conoscenza sensibile a quella razionale, dalla dimensione materiale a quella spirituale. È la chiusura del cerchio, con il ritorno ad una conoscenza spirituale, come delle evidenze, ma con una profondità di analisi decisamente superiore; ed il processo può ripartire per un nuovo “giro”, ma non si tratta di un processo circolare, quanto di una specie di scala a chiocciola, dove, ad ogni giro, discende sempre più in profondità, acquisendo sempre nuove conoscenze o, anche solo, una maggiore padronanza di quelle che già si hanno.

L’apice di questo processo si raggiunge nella metafisica. Dalla conoscenza sensibile, come abbiamo visto, la ragione astrae i concetti. Astrarre[3] significa, letteralmente, trarre fuori; l’utilizzo di questo verbo sta proprio a significare il fatto che i concetti sono già contenuti nelle cose e nella loro conoscenza sensibile. Il concetto è il modo in cui la cosa è o, meglio, in cui sono tutte le cose (enti) della medesima natura. Chi “crea”[4] parte dal concetto e realizza l’ente, come il geometra che, con il compasso, disegna un cerchio: egli parte dall’idea astratta (concetto) di cerchio e realizza uno specifico cerchio (ente). Ma per possedere il concetto è sempre necessario astrarlo dagli enti concreti.

Non è necessario che ciascuna persona compia personalmente il processo astrattivo, ma basta che lo abbia fatto qualcun altro e che ci comunichi il risultato di tale “lavoro”[5]. Ciò significa che i concetti sono comunicabili e lo possono essere solo a patto che il processo astrattivo compiuto dalla ragione sia oggettivo. Questo principio, su cui, inevitabilmente, torneremo, è il punto cruciale sul quale si scontrano il realismo e lo scetticismo, comunque declinati.

Il passo finale è, come dicevamo, la metafisica, vale a dire la capacità della ragione umana di astrarre, ulteriormente, dai concetti i principi che regolano tutta la realtà.

Tutto quanto fin qui esaminato ci permette di comprendere come, anche sul piano politico, l’Europa improntasse tutta la sua civiltà al più rigido realismo, proprio perché intrisa di Cristianesimo, tanto da autodefinirsi Res Publica Christiana o, semplicemente, Christianitas. Questo concetto fu teorizzato dall’imperatore Federico II di Svevia (1194-1250), che vi vedeva il superamento o, meglio, la sublimazione del concetto pre-cristiano e, in particolare, stoico[6] di Impero. La giustificazione e, conseguentemente, i limiti del potere politico risiedono proprio nella sua aderenza alla realtà metafisica, di cui il Cristianesimo è la realizzazione più compiuta. Il fatto stesso che questi principi vengano teorizzati da Federico II, considerato, forse non completamente a ragione, un anticipatore del razionalismo anti-cristiano, dimostra come essi siano insiti nella ragione umana e come l’allontanarvisi, lungi dall’essere una liberazione dell’uomo, si concretizzino in un ritorno alla barbarie del volontarismo, anticamera di ogni arbitrio politico.

Il concetto stesso di libertà, nell’ottica realista, non può essere inteso, come faranno, poi, i liberali, nel senso dell’autodeterminazione volontarista del soggetto, ma, unicamente, come limite a tale autodeterminazione. La celebre frase, secondo la quale «la mia libertà finisce dove inizia quella dell’altro», oltre ad essere assolutamente priva di senso compiuto, capovolge totalmente il concetto di libertà. È priva di senso compiuto, poiché, non essendo ancorata alla realtà della natura umana, non può stabilire, se non in senso assolutamente arbitrario e soggettivo, dove tale limite possa essere posto. Ribalta, poi, il concetto stesso di libertà, perché pone nell’autodeterminazione del soggetto il limite a quella stessa autodeterminazione, con un circolo vizioso, che sfocia, inevitabilmente, nell’arbitrio di chi, per qualunque ragione, si trovi in una materiale situazione di potere.

La libertà non può essere il principio regolatore dell’azione umana, perché, come abbiamo visto, se così fosse, sfocerebbe nell’arbitrio e, quindi, nella sua stessa eliminazione. Essa è, invece, il risultato della corretta applicazione dei principi e delle norme di comportamento che scaturiscono dalla corretta visione della natura umana.

È sulla base di questi principi filosofici, innervati ed illuminati dalla ragionevolezza della Fede (qui), che l’Europa “produce” la più alta civiltà, anche sul piano politico, che il genere umano abbia mai conosciuto.

 

 

[1] 1Pt 3,15.

[2] I greci chiamavano ὕβϱις (hübris) l’arroganza dell’uomo che pone la propria volontà al di sopra delle leggi degli dèi. Qui il termine viene usato nel significato estensivo di presunzione, incapacità di riconoscere i propri limiti.

[3] Dal latino «abs» (da, come provenienza da un luogo reale o figurato) e «trahere» (trarre).

[4] Tecnicamente parlando, solo Dio crea, in quanto Egli solo è in grado di trarre all’esistenza qualcosa dal nulla. Qui il termine viene usato in senso analogico, per indicare l’azione umana di portare, con atto volontario, all’esistenza di un ente, sia pure attraverso la trasformazione e l’utilizzo di realtà preesistenti, tra le quali, ovviamente, anche i concetti.

[5] Qui il termine «lavoro» viene utilizzato nel più ampio senso di «attività».

[6] Lo Stoicismo è la corrente filosofica, fondata da Zenone di Cizio (336/5-263 a.C.), che, preso atto della natura razionale e morale dell’uomo, poneva la sua realizzazione, nel senso aristotelico di percorso verso il raggiungimento della perfezione della propria natura, nell’adempimento del proprio dovere e, in modo particolare, del dominio della ragione sulle passioni. In quest’ottica, la funzione del potere politico era quella di favorire l’universale diffusione della virtù; si giustificava, così, l’universalità di tale potere, proprio perché non basato sull’arbitrio della volontà del governante, ma sulla sua sottomissione alla ragione ed al bene. Il principale esponente di questa lettura, sul piano politico, fu l’imperatore romano Marco Aurelio (121-180 d.C.), che vi vedeva la giustificazione filosofica all’imposizione delle virtù romane a tutto l’orbe terracqueo.

 

 

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