L’arte di morire

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Viviamo in un’era tanatofobica. Del tutto disarmati, ormai, di fronte alla morte, preferiamo nasconderla, esorcizzarla, magari rinchiudendo o eliminando anche i sofferenti, perché ci fanno soffrire, perché ci ricordano che un giorno toccherà a noi. Come sarebbe bello, allora, passare attraverso quel momento terribile, che non capiamo più, senza accorgercene. Magari potessimo morire nel sonno!

Non era così nel solito “buio” Medioevo. Allora, morire era un’arte. In quel tempo, lo sappiamo, si viveva a contatto con la morte. Si poteva morire in ogni istante. Un uomo nel fiore degli anni poteva morire per una ferita, una donna per un parto andato a male. Per non parlare dei bambini, falciati da malattie, infezioni, incidenti domestici. La morte era nella vita di tutti i giorni: escluderla sarebbe stato tanto stupido quanto poco realistico.

La differenza sostanziale, ovviamente, è che un tempo si credeva in un Aldilà di premio o castigo e la morte era il «trapasso»: un vaglio attraverso cui si doveva passare e a cui ci si doveva preparare per evitare l’inferno. Oggi, invece, l’assurdità della morte non è che il coronamento dell’assurdità ultima della vita.

La «buona morte» cominciò ad assumere un ruolo di particolare rilevanza dopo la peste del 1348, non a caso chiamata «Morte nera», mentre era in corso, tra l’altro, la guerra dei Cent’anni tra Francia e Inghilterra. In tanti, in troppi se n’erano andati senza il conforto dei sacramenti, senza poter confessare i peccati, senza aver preso il Viatico.  Bisognava ricordare alla gente che era necessario vivere virtuosamente, poiché la morte poteva giungere all’improvviso. «A subitanea et improvisa morte libera nos, Domine», recitava l’antica litania. Guai a morire nel sonno, magari con peccati mortali sulla coscienza.

Per questo, man mano che la vita rifioriva, la Chiesa volle ricordare al popolo di Dio che non era il caso di darsi alla pazza gioia, ai piaceri sregolati: anche per chi se l’era cavata, la morte stava in agguato dietro l’angolo. È l’apogeo del «Memento mori» e delle danze macabre, dipinte, recitate, cantate: scheletri sogghignanti e corpi più o meno decomposti si assicuravano che nessuno mai dimenticasse. La paura fa novanta, ovviamente. D’altronde, poiché tutti sapevano come fare per guadagnarsi il Paradiso, non c’era che da rimboccarsi le maniche e lavorar sodo.

Non è esattamente questo il contesto in cui si sviluppò l’Ars Moriendi. Sebbene avesse lo stesso fine del «Memento mori», il messaggio che voleva dare andava addirittura in senso contrario: non era tesa a spaventare, bensì a dare speranza agli agonizzanti e alle loro famiglie, inclusi coloro che morivano senza il conforto degli ultimi sacramenti.

L’opera ci è giunta in due versioni principali, tra loro correlate: una più estesa, una più breve e corredata da undici/tredici illustrazioni. Il primo scritto sulla buona morte fu steso in latino ai primi del Quattrocento, probabilmente in ambito domenicano (forse prendendo spunto da un breve scritto di Jean Gerson), e subito diffuso, trascritto, sintetizzato in manoscritto. Con l’introduzione della stampa divenne un best seller mondiale: nel 1501, oltre ad aver dato il via a tutta una ricca letteratura sulla buona morte, l’opera aveva già avuto settanta edizioni in tutte le lingue europee, dal catalano all’olandese, con una tiratura complessiva di più di cinquantamila copie.

Di qualunque versione si tratti, l’Ars moriendi è un’opera semplice e divulgativa, tesa a dare ai comuni mortali armi sicure con cui affrontare il combattimento finale; i suoi consigli preziosissimi sarebbero per noi, se ci credessimo, un vaccino potentissimo contro la tanatofobia: una volta controllata la paura della morte, ovviamente, anche la vita ci sorriderebbe.

Gli ultimi istanti di vita, ci dicono gli anonimi autori, sono il momento più delicato e importante in assoluto, poiché in quella sede si gioca il destino ultimo, eterno, dell’anima. È  un libro per tutti, essi sottolineano, laici e consacrati, uomini e donne, ricchi e poveri, perché la morte di tutti i suoi figli è preziosa per Dio. Il messaggio è chiaro: non è mai troppo tardi per pentirsi. Se anche un peccatore incallito si convertirà anche solo un minuto prima di esalare l’ultimo respiro, sarà salvato. Certo: qualora il dolore per i peccati commessi non sia abbastanza grande, la sua anima andrà in purgatorio; ma, dopo la debita espiazione e purificazione, contemplerà infine il volto di Dio.

Se possibile, dunque, il momento della morte va preparato con estrema cura: idealmente, per tutta la vita. Un consiglio molto pratico è vivere ogni giorno in grazia di Dio, nel caso in cui la morte giunga all’improvviso. Ma che fare, sul letto di morte?

Prima di tutto, i congiunti devono comunicare al moribondo che sta per presentarsi al cospetto di Cristo: guai a loro se, “per non farlo spaventare”, gli diranno, mentendo, che ha davanti ancora molto tempo. Gli si deve dunque raccomandare, qualora sia ancora cosciente, di affidarsi alla misericordia divina, alla Passione di Cristo, all’intercessione della Vergine e di tutti i Santi, in particolare a San Michele, affinché tengano lontani i demoni tentatori che accorreranno nella speranza di aggiudicarsi la sua anima (le pittoresche illustrazioni, in cui il letto del moribondo è circondato da diavoli mostruosi e saltellanti, giocano un ruolo fondamentale). I demoni si possono tener lontani anche con l’acqua santa o suonando una campanella benedetta.

I congiunti dovranno ora aiutare il moribondo a superare alcuni ostacoli ben definiti, corrispondenti ad altrettante tentazioni demoniache. Il primo terribile attacco satanico è l’incredulità, peccato contro la fede: il ritenere che Dio non esista e morire nel terrore di andare verso il nulla. I parenti potranno recitare il Credo e parlargli della passione di Cristo.

La seconda tentazione in cui i diavoli vorranno indurre il poveretto è la disperazione della salvezza, peccato contro la speranza, che è poi anche il peccato di Giuda. Egli vedrà chiaramente la propria indegnità di comparire al cospetto di Dio, mentre tutti i peccati commessi, specialmente se inconfessati, graveranno su di lui. Come potrà Dio salvare un uomo tanto malvagio? Occorrerà allora ricordare al moribondo che, qualora ci sia qualcosa che non è riuscito a confessare, è sufficiente la contrizione del cuore. E che, come disse san Bernardo, la misericordia divina è più grande di ogni malvagità. Poi gli si mostrerà il Crocifisso, ricordandogli che Cristo è morto anche per lui, perché non ha avuto orrore di addossarsi anche i suoi peccati.

La terza tentazione è l’impazienza nella sofferenza, cioè la non accettazione della propria agonia e dei dolori che essa comporta. È questo un peccato contro la carità, giacché la carità è amare Dio sopra ogni cosa. Bisognerà allora fortificare il moribondo nella pazienza, cioè nella capacità di sopportare le sofferenze. Da qui, sarebbe auspicabile un ulteriore passo avanti: si incoraggi il moribondo ad acquisire un ruolo attivo nella sofferenza, ad accettarla di buon grado, esserne addirittura felice e utilizzarla così come strumento di salvezza, per i propri peccati e per quelli altrui. Chi soffre molto nell’agonia sconta già, almeno in parte, le pene del purgatorio.

La quarta tentazione è più sottile e subentra quando, specialmente se è un religioso, il moribondo sia riuscito a sfuggire senza grande fatica alle prime tre tentazioni. I demoni allora lo blandiranno e gli faranno notare quanto è stato bravo, quanto è virtuoso. Tanto virtuoso, di fatto, che si salverà da solo. È questo il peccato di superbia, che presume di salvarsi senza la Grazia di Dio e senza i meriti infiniti di Cristo. Sarà allora necessario ricordargli che è un peccatore come tutti gli altri e che nessuno si salva da solo.

L’ultima tentazione è l’avarizia, cioè l’attaccamento smodato ai beni o alle persone di questo mondo. Occorre pregare molto insieme al moribondo e incoraggiarlo ad accettare con gioia la volontà di Dio, spingendolo a guardare avanti, non indietro.

Se riesce, il moribondo dovrà pregare così: «La morte di nostro Signore Gesù Cristo io pongo tra me e i miei peccati». Nel frattempo, poiché la campana della chiesa suona a morto, l’intera comunità può pregare per la salvezza della sua anima e, anzi, precipitarsi al suo capezzale. Proprio così: gli autori specificano che è questa una delle due uniche occasioni in cui anche ai religiosi è permesso di correre (l’altra è in caso di incendio).

All’avvicinarsi del momento estremo, gli si offra un Crocifisso o un’altra immagine sacra da baciare. Nelle bellissime immagini di cui il libro è spesso corredato, la morte ricorda il momento del parto: l’anima, come un neonato, esce dalla bocca del moribondo e finisce direttamente tra le braccia di un angelo, che sta lì pronto, come una brava levatrice. Tutto intorno, Gesù, Maria e i Santi assistono felici alla scena, mentre i diavoli stramazzano a terra sconfitti.

A morte avvenuta, preghiere e Messe di suffragio potranno ancora essere di grande aiuto al caro estinto: anche per i peccatori incalliti, apparentemente morti impenitenti, non si può mai dire con assoluta certezza che non siano riusciti a guadagnarsi un angolino in purgatorio all’ultimissimo secondo. Magari ci staranno centomila anni; poi, però, avranno accesso al Paradiso.

L’arte di morire rimase un best seller per tutto il Cinquecento, nei Paesi che si salvarono dallo scisma protestante. Né la gente si stancò mai di essere istruita sull’argomento. Le varie versioni dell’Ars moriendi medievale ispirarono, tra innumerevoli opere minori, prima il De preparatione ad mortem di Erasmo (1534), poi il De arte bene moriendi del Cardinal Bellarmino (1621), infine l’Apparecchio alla morte di sant’Alfonso dei Liguori (1758).

È ai tempi nostri che le opere di preparazione alla morte hanno perso ogni interesse per i fedeli. Noi, a volte, nemmeno mandiamo a chiamare il sacerdote perché il moribondo, con tutto quello che deve già soffrire, si spaventerebbe. Così il povero malato, che ha invariabilmente capito benissimo che sta per morire, non ha nessuno con cui confidarsi, dato che i parenti continuano a negare. Egli non ne parla per non addolorare loro, essi non ne parlano per non far preoccupare lui. In questa congiura del silenzio, il malato si trova totalmente solo, oltre che disarmato, davanti al terrore più totalizzante di tutta la sua vita.

Viene in mente Il mondo nuovo di Aldous Huxley (1932), il cui sistema totalitario e progressivo ha apparentemente risolto anche questo problema. Demolita la famiglia, nessuno piange più i propri cari e, anzi, frotte di bambini curiosi vengono condotti a vedere gli agonizzanti, che, persi in un universo parallelo di musica e droga, spirano dolcemente, senza paura e senza accorgersene, mentre i piccoli assistono alla dipartita di tutti quei perfetti sconosciuti facendo domande sciocche e mangiando dolciumi. I “cari estinti”, in realtà non più cari a nessuno, vengono poi portati al forno crematorio da altrettanti velivoli dai colori vivaci e fine della storia. Nessun lamento, nessun pianto, nessuna cerimonia, solo calma e filosofica rassegnazione.  Un altro tassello, nel quadro inquietante del romanzo, che lo rende fin troppo reale, soprattutto considerando che l’autore proveniva da una nota famiglia di medici e scienziati evoluzionisti e massoni, votati, ovviamente, al miglioramento dell’umanità. Non a caso il fratello di Huxley, Julian, eugenista, internazionalista, sostenitore del controllo selettivo delle nascite e vincitore del premio Darwin, fu uno dei fondatori sia dell’Unesco che del WWF. Il contenuto del romanzo è forse ispirato a chiacchiere che lo scrittore sentiva in famiglia? Chiacchiere che, forse, in quel momento, non gli piacevano (sull’uso di stupefacenti, per esempio, fece poi una decisa inversione di marcia); ma certo Huxley sapeva già dove il nuovo ordine mondiale ci avrebbe portato. È questo il mondo che ci aspetta? Altro che distopia.

 

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3 commenti su “L’arte di morire”

  1. Carla D'Agostino Ungaretti

    Ogni giorno io prego il Signore perché mi faccia morire cosciente e aggrappata alla Sua Croce, sentendo la vicinanza di Sua Madre e del mio Angelo Custode. Ma oggi non si muore più così ed io stessa, che ho una gran paura del dolore fisico, temo che chiederei a gran voce di essere sedata, addormentata o qualunque altra terapia palliativa. Se questo è un peccato, lo confesso umilmente e spero e credo che l’accettazione totale della volontà di Dio mi sorregga anche facendomi sentire “leggera” la Sua Croce.

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