Il Maestro di color che sanno… Inferno, canto XI

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Paul Gustave Louis Christophe Doré (1832-1883), Presso la tomba di Papa Anastasio (1861) 

 

In su l’estremità d’un’alta ripa

che facevan gran pietre rotte[1] in cerchio

venimmo sopra più crudele stipa[2];

 

e quivi, per l’orribile soperchio

del puzzo che ’l profondo abisso gitta,

ci raccostammo, in dietro, ad un coperchio

 

d’un grand’avello, ov’io vidi una scritta

che dicea: «Anastasio papa guardo,

lo qual trasse Fotin de la via dritta».

 

«Lo nostro scender conviene esser tardo,

sì che s’ausi un poco in prima il senso

al tristo fiato; e poi no i[3] fia riguardo».

 

Così ’l maestro; e io «Alcun compenso»,

dissi lui, «trova che ’l tempo non passi

perduto[4]». Ed elli: «Vedi ch’a ciò penso».

 

«Figliuol mio, dentro da cotesti[5] sassi»,

cominciò poi a dir, «son tre cerchietti

di grado in grado, come que’ che lassi.

 

Tutti son pien di spirti maladetti;

ma perché poi ti basti pur la vista,

intendi come e perché son costretti.

 

D’ogne malizia, ch’odio in cielo acquista,

ingiuria[6] è ’l fine, ed ogne fin cotale

o con forza o con frode[7] altrui contrista.

 

Ma perché frode è de l’uom proprio male,

più spiace a Dio; e però stan di sotto

li frodolenti, e più dolor li assale.

 

Di violenti il primo cerchio è tutto;

ma perché si fa forza a tre persone,

in tre gironi è distinto e costrutto.

 

A Dio, a sé, al prossimo si pòne[8]

far forza, dico in loro e in lor cose,

come udirai con aperta ragione.

 

Morte per forza e ferute dogliose

nel prossimo si danno, e nel suo avere

ruine, incendi e tollette[9] dannose;

 

onde omicide[10] e ciascun che mal fiere,

guastatori e predon, tutti tormenta

lo giron primo per diverse schiere.

 

Puote omo[11] avere in sé man violenta

e ne’ suoi beni; e però nel secondo

giron convien che sanza pro si penta

 

qualunque priva sé del vostro mondo[12],

biscazza[13] e fonde la sua facultade,

e piange là dov’esser de’ giocondo.

 

Puossi far forza nella deitade,

col cor negando e bestemmiando[14] quella,

e spregiando natura e sua bontade;

 

e però lo minor giron suggella

del segno suo e Soddoma e Caorsa[15]

e chi, spregiando Dio col cor, favella.

 

La frode, ond’ogne coscienza è morsa,

può l’omo usare in colui che ’n lui fida

e in quel che fidanza non imborsa[16].

 

Questo modo di retro par ch’incida[17]

pur lo vinco d’amor che fa natura;

onde nel cerchio secondo s’annida

 

ipocresia, lusinghe e chi affattura,

falsità, ladroneccio e simonia,

ruffian, baratti e simile lordura.

 

Per l’altro modo quell’amor s’oblia

che fa natura, e quel ch’è poi aggiunto,

di che la fede spezial si cria;

 

onde nel cerchio minore, ov’è ’l punto

de l’universo in su che Dite siede,

qualunque trade[18] in etterno è consunto».

 

E io: «Maestro, assai chiara procede

la tua ragione, e assai ben distingue

questo baràtro[19] e ’l popol ch’e’ possiede.

 

Ma dimmi: quei de la palude pingue[20],

che mena il vento, e che batte la pioggia,

e che s’incontran con sì aspre lingue,

 

perché non dentro da la città roggia[21]

sono ei puniti, se Dio li ha in ira?

e se non li ha, perché sono a tal foggia?».

 

Ed elli a me «Perché tanto delira[22]»,

disse «lo ’ngegno tuo da quel che sòle?

o ver la mente dove altrove mira?

 

Non ti rimembra di quelle parole

con le quai la tua Etica pertratta[23]

le tre disposizion che ’l ciel non vole,

 

incontenenza, malizia e la matta

bestialitade? e come incontenenza

men Dio offende e men biasimo accatta?

 

Se tu riguardi ben questa sentenza,

e rechiti a la mente chi son quelli

che sù di fuor sostegnon penitenza,

 

tu vedrai ben perché da questi felli

sien dipartiti, e perché men crucciata

la divina vendetta li martelli».

 

«O sol che sani ogni vista turbata,

tu mi contenti sì quando tu solvi,

che, non men che saver, dubbiar m’aggrata[24].

 

Ancora in dietro un poco ti rivolvi»,

diss’io, «là dove di’ ch’usura offende

la divina bontade, e ’l groppo solvi[25]».

 

«Filosofia[26]», mi disse, «a chi la ’ntende,

nota, non pure in una sola parte,

come natura lo suo corso prende

 

dal divino ’ntelletto e da sua arte;

e se tu ben la tua Fisica note,

tu troverai, non dopo molte carte,

 

che l’arte vostra quella, quanto pote,

segue, come ’l maestro fa ’l discente;

sì che vostr’arte a Dio quasi è nepote.

 

Da queste due, se tu ti rechi a mente

lo Genesì dal principio, convene

prender sua vita e avanzar la gente;

 

e perché l’usuriere[27] altra via tene,

per sé natura e per la sua seguace

dispregia, poi ch’in altro pon la spene.

 

Ma seguimi oramai, che ’l gir mi piace;

ché i Pesci guizzan su per l’orizzonta,

e ’l Carro tutto sovra ’l Coro giace,

 

e ’l balzo via là oltra si dismonta».

 

[1] Costruzione sintattica inversa, in cui il complemento oggetto (che) precede, mentre il soggetto (pietre) segue.

[2] Forma deverbale da “stipare” (riempire): vale quindi “massa, folla, insieme di molte persone (o cose) riunite e schiacciate insieme. L’etimo è il latino stipem (letteralmente: “fascio di sterpi”). Quanto all’aggettivo “crudele” può sia essere usato in funzione avverbiale (crudelmente) sia come attributo di stipa per significare le anime colpevoli di azioni più crudeli.

[3] Come già osservato altrove, “i” (dal latino ei, dativo singolare di is, ea, id) equivale a “gli” (a lui). Secondo un’altra interpretazione potrebbe invece derivare da “ivi”, e valere quindi “lì”.

[4] Equivale al participio passato latino perditum (< perdere), col valore di “perdere per colpa propria”; invece “perdere senza propria colpa” è amittere. Quindi, in italiano, più corretto usare “sprecare”, nel primo caso, e “perdere”, nel secondo. Ricordiamo, ad abundantiam, ciò che il biografo Svetonio (I/II sec. d. C.) riferisce dell’imperatore Vespasiano: quando un giorno era passato senza che egli avesse potuto fare del bene a qualcuno, era solito esclamare rivolto ai cortigiani “Amici, hodie diem perdidi!” (“Amici, oggi ho sprecato un giorno!”).

[5] Alcuni commentatori, seguendo il Castelvetro nella sua Sposizione (1571?), notano come Dante non usi in modo proprio l’aggettivo “cotesti”, relativo propriamente a qualcuno o qualcosa vicino a chi ascolta.

[6] Qui è termine tecnico del linguaggio giuridico romano: iniuria è ciò che va contro o che nega (in) il diritto (ius), e quindi vale “violazione, infrazione” più che non il più generico, come in italiano comune, “offesa”.

[7] Si può rimandare a Cicerone (de officiis, I, 13), in cui si parla di iniuria fatta o con la violenza (vi) o con la frode (fraude): la prima ricorda il leone, la seconda la volpe (vedi poi anche Machiavelli, Principe, cap. 18).

[8] “Si può”: forma (arcaica, ma ancora presente in parlate dialettali toscane) con epitesi (cioè “aggiunta”) dell’enclitica -ne (puone > pòne), da non confondere con “póne” (con o chiusa), 3a persona singolare dell’indicativo presente del verbo “pórre”.

[9] Dalla forma arcaica “tollere” (cfr. latino) per “togliere”: vale “rapine, ruberie”.

[10] Come già visto altrove (“eresiarche”) è forma arcaica del plurale dei sostantivi maschili uscenti in -a.

[11] La forma “omo” (talora anche con troncamento: “om”), equivalente al francese on, serve a dare valore impersonale al verbo: “puote omo” = “si può”.

[12] Metonimico per “vita”.

[13] Il verbo “biscazzare”, formato a partire dal sostantivo “bisca” (< lat. med. biscatia, “gioco d’azzardo”), vale “giocare d’azzardo” e poi, conseguentemente, “sprecare denaro e tempo giocando d’azzardo”.

[14] I due gerundi indicano le due categorie di violenti contro Dio: gli atei (negando) ed i bestemmiatori (bestemmiando).

[15] La città francese di Cahors, i cui abitanti erano talmente dediti all’usura che – nel Medioevo – il termine “caorsino” significava anche “usuraio”. Sia Soddoma che Caorsa costituiscono la figura retorica della sineddoche: i nomi delle città per indicare quello dei loro abitanti, cioè l’individuale per il collettivo.

[16] Neologismo dantesco col valore di “avere nella borsa”, e quindi “possedere”.

[17] Il latinismo “incida” (“spezzi”) è lectio difficilior rispetto a “uccida”, presente in altre edizioni.

[18] Dal verbo latino tradere (letteralmente “consegnare”, da cui anche il termine “tradizione”, ciò che consegnato, affidato dagli antichi). Il sostantivo latino traditor assunse il valore negativo che ancora oggi è presente nella sua continuazione italiana ai tempi della persecuzione anti-cristiana dell’imperatore Decio (250/251), il quale impose ai vescovi ed ai presbiteri di “consegnare” (tradere) i libri sacri in loro possesso: chi di essi si assoggettò e consegnò i libri fu un traditor, cioè chi, consegnando i libri a lui affidati, distruggeva anche la comunità affidatagli.

[19] Accentazione dotta (baràtro): cfr. latino barāthrum.

[20] Traslato per “grassa, densa”: quasi una personificazione della palude.

[21] L’aggettivo “roggia” (< latino rubea) indica il color rosso del ferro rovente, tendente a quello della ruggine.

[22] Il verbo “delirare” (in questo caso nel senso di “uscire dalla retta ragione”) deriva dal termine latino lira, che significa “solco” (da non confondere con lyra, lo strumento musicale). Delirare significava dunque, inizialmente, uscire dal solco durante l’aratura; poi uscire dalla strada diritta, e quindi uscire dalla ragione, parlare dicendo cose senza senso, fino ad impazzire.

[23] Secondo l’uso latino, tutti i verbi composti con la preposizione per- indicano che l’azione da essi espressa viene compiuta fino in fondo, completamente: sequor (inseguo)/persequor (seguo fino a raggiungere), facio (faccio)/perficio (porto a termine, compio). Qui dunque “pertratta” vale “espone, tratta compiutamente”.

[24] Forma etimologica (< lat. gratum) per “aggrada”.

[25] Metafora molto comune (e già usata dal poeta) per cui il dubbio è visto come un nodo che tiene legata la mente, impedendole di giungere alla conoscenza. Anche noi, d’altra parte, nel linguaggio comune usiamo la forma “mi stringe (mi avviluppa) un dubbio”.

[26] Come normalmente in Dante la “filosofia” per antonomasia è quella aristotelica.

[27] Francesismo (< usurier) per l’italiano comune “usuraio” (< lat. usurarium).

 

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