Il Maestro di color che sanno… Inferno, canto XVII

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Gli usurai, miniatura ferrarese del XV secolo

 

«Ecco la fiera con la coda aguzza,

che passa i monti, e rompe i muri e l’armi[1]!

Ecco colei che tutto ’l mondo appuzza!».

 

Sì cominciò lo mio duca a parlarmi;

e accennolle che venisse a proda

vicino al fin d’i passeggiati marmi[2].

 

E quella sozza imagine di froda[3]

sen venne, e arrivò[4] la testa e ’l busto,

ma ’n su la riva non trasse la coda.

 

La faccia sua era faccia d’uom giusto,

tanto benigna avea di fuor la pelle[5],

e d’un serpente tutto l’altro fusto;

 

due branche avea pilose insin l’ascelle;

lo dosso e ’l petto e ambedue le coste

dipinti avea di nodi e di rotelle.

 

Con più color, sommesse e sovraposte[6]

non fer mai drappi Tartari né Turchi,

né fuor tai tele per[7] Aragne imposte.

 

Come tal volta stanno a riva i burchi,

che parte sono in acqua e parte in terra,

e come là tra li Tedeschi lurchi

 

lo bivero[8] s’assetta a far sua guerra,

così la fiera pessima si stava

su l’orlo ch’è di pietra e ’l sabbion serra.

 

Nel vano tutta sua coda guizzava,

torcendo in sù la venenosa forca[9]

ch’a guisa di scorpion la punta armava.

 

Lo duca disse: «Or convien che si torca

la nostra via un poco insino a quella

bestia malvagia che colà si corca».

 

Però scendemmo a la destra mammella,

e diece passi femmo in su lo stremo,

per ben cessar[10] la rena e la fiammella.

 

E quando noi a lei venuti semo,

poco più oltre veggio in su la rena

gente seder propinqua al loco scemo.

 

Quivi ’l maestro «Acciò che tutta piena

esperienza d’esto giron porti»,

mi disse, «va, e vedi la lor mena.

 

Li tuoi ragionamenti sian là corti:

mentre che torni, parlerò con questa,

che ne conceda i suoi omeri forti».

 

Così ancor su per la strema testa

di quel settimo cerchio tutto solo

andai, dove sedea la gente mesta.

 

Per li occhi fora scoppiava lor duolo;

è di qua, di là soccorrien con le mani

quando a’ vapori, e quando al caldo suolo:

 

non altrimenti fan di state i cani

or col ceffo[11], or col piè, quando son morsi

o da pulci o da mosche o da tafani.

 

Poi che nel viso a certi li occhi porsi,

ne’ quali ’l doloroso foco casca,

non ne conobbi alcun; ma io m’accorsi

 

che dal collo a ciascun pendea una tasca

ch’avea certo colore e certo segno,

e quindi par che ’l loro occhio si pasca.

 

E com’io riguardando tra lor vegno,

in una borsa gialla vidi azzurro

che d’un leone avea faccia e contegno.

 

Poi, procedendo di mio sguardo il curro[12],

vidine un’altra come sangue rossa,

mostrando un’oca bianca più che burro[13].

 

E un che d’una scrofa azzurra e grossa

segnato avea lo suo sacchetto bianco,

mi disse: «Che fai tu in questa fossa?

 

Or te ne va; e perché se’ vivo anco,

sappi che ’l mio vicin Vitaliano

sederà qui dal mio sinistro fianco.

 

Con questi Fiorentin son padoano:

spesse fiate mi ’ntronan li orecchi

gridando: «Vegna ’l cavalier sovrano,

 

che recherà la tasca con tre becchi!».

Qui distorse la bocca e di fuor trasse

la lingua, come bue che ’l naso lecchi.

 

E io, temendo no ’l più star crucciasse

lui che di poco star m’avea ’mmonito,

torna’mi in dietro da l’anime lasse.

 

Trova’ il duca mio ch’era salito

già su la groppa del fiero animale,

e disse a me: «Or sie forte e ardito.

 

Omai si scende per sì fatte scale:

monta dinanzi, ch’i’ voglio esser mezzo,

sì che la coda non possa far male».

 

Qual è colui che sì presso ha ’l riprezzo

de la quartana, ch’à già l’unghie smorte,

e triema tutto pur guardando ’l rezzo[14],

 

tal divenn’io a le parole porte;

ma vergogna mi fé le sue minacce,

che innanzi a buon segnor fa servo forte.

 

I’ m’assettai in su quelle spallacce;

sì volli dir, ma la voce non venne

com’io credetti: ‘Fa che tu m’abbracce’.

 

Ma esso, ch’altra volta mi sovvenne

ad altro forse[15], tosto ch’i’ montai

con le braccia m’avvinse e mi sostenne;

 

e disse: «Gerion, moviti omai:

le rote larghe e lo scender sia poco:

pensa la nova soma che tu hai».

 

Come la navicella esce di loco

in dietro in dietro, sì quindi[16] si tolse;

e poi ch’al tutto si sentì a gioco,

 

là ’v’era ’l petto, la coda rivolse,

e quella tesa, come anguilla, mosse,

e con le branche l’aere a sé raccolse.

 

Maggior paura non credo che fosse

quando Fetonte abbandonò li freni,

per che ’l ciel, come pare ancor, si cosse;

 

né quando Icaro misero le reni

sentì spennar per la scaldata cera,

gridando il padre a lui «Mala via tieni!»,

 

che fu la mia, quando vidi ch’i’ era

ne l’aere d’ogne parte, e vidi spenta

ogne veduta fuor che de la fera.

 

Ella sen va notando lenta lenta:

rota e discende, ma non me n’accorgo

se non che al viso e di sotto mi venta.

 

Io sentia già da la man destra il gorgo

far sotto noi un orribile scroscio,

per che con li occhi ’n giù la testa sporgo.

 

Allor fu’ io più timido a lo stoscio,

però ch’i’ vidi fuochi e senti’ pianti;

ond’io tremando tutto mi raccoscio.

 

E vidi poi, ché nol vedea davanti,

lo scendere e ’l girar per li gran mali

che s’appressavan da diversi canti.

 

Come ’l falcon ch’è stato assai su l’ali,

che sanza veder logoro o uccello

fa dire al falconiere «Omè, tu cali!»,

 

discende lasso onde si move[17] isnello,

per cento rote, e da lunge si pone

dal suo maestro, disdegnoso e fello;

 

così ne puose al fondo Gerione

al piè al piè[18] de la stagliata[19] rocca

e, discarcate le nostre persone,

 

si dileguò come da corda cocca.

 

[1] Esempio di climax (o, in latino, gradatio) discendente: si parte dall’esempio di difesa più forte (monti), per scendere poi a quelle più deboli (muri ed armi).

[2] Metonimia per indicare la pietra, di cui era costituito l’argine su cui i due poeti avevano camminato.

[3] Forma rara, usata da Dante solamente in rima, ma presente anche in prosa nell’italiano antico.

[4] Uso transitivo del verbo “arrivare”, col significato dunque etimologico di “portare a riva”: regge, come complementi oggetto, la testa e ’l busto.

[5] Uso traslato, metonimico, per indicare l’aspetto (concreto per l’astratto).

[6] I participi passati “sommesse” e “sovraposte” sono usati come sostantivi per indicare, le prime, le parti del tessuto che formano lo sfondo colorato del tappeto e, le seconde, le parti in rilievo di colori diversi che costituiscono il disegno.

[7] Come spesso accade in Dante, abbiamo il complemento di agente retto dalla preposizione per (cfr. francese par).

[8] Si tratta del castoro, indicato però col nome derivato dal latino biber (o bifer); cfr. anche l’inglese beaver. Il termine più moderno castoro è dal greco kástor (κάστωρ) attraverso il latino castorem.

[9] Forca col valore di forbice. Troviamo anche la forma force, col diminutivo forcella.

[10] Qui con valore transitivo, nel significato di “evitare, scansare”, col complemento oggetto la rena e la fiammella.

[11] Dal francese chef (< latino caput) nel senso di “viso, muso”. Nell’italiano moderno resta l’uso metonimico: brutto ceffo, “persona dall’aspetto sgradevole”.

[12] Immagine metaforica per cui l’azione del guardare è espressa con l’immagine del carro che procede nel suo cammino. Tutta la struttura ricorda, con l’uso del gerundio, l’ablativo assoluto latino.

[13] A causa della cosiddetta “scriptio continua” dei codici medievali il testo può presentarsi con due lezioni, entrambe concettualmente accettabili: più che burro o più ch’eburro (cioè più dell’avorio). Gli editori tendono a preferire la prima perché, pur essendo la seconda difficilior, essa è più in linea con il tono “comico” (nel senso retorico-medievale) di tutto l’episodio.

[14] Forma con aferesi per orezzo (< verbo “orezzare”, soffiare”), col valore di “brezza” e poi per metonimia di “luogo fresco, ombroso, ombra”.

[15] Forse ha qui valore di sostantivo (e non di avverbio), col significato di “dubbio”.

[16] Quindi con valore di luogo (“di là”) e non di tempo (“in seguito, poi”).

[17] È preferita la lezione si move (presente) invece di quella si mosse (al passato) perché qui il presente ha valore di consuetudine: “è solito muoversi”.

[18] Tipico dell’italiano antico (ma presente anche in quello attuale, soprattutto con aggettivi o avverbi; per es. “presto presto”, “facile facile”…) è il ripetere un termine per accentuarne il significato (reduplicazione intensiva): al piè al piè vale “proprio ai piedi”.

[19] Letteralmente “roccia tagliata in modo irregolare, irta di protuberanze”.

 

 

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