Il Maestro di color che sanno… Inferno, canto XX

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Bottega di Pacino di Buonaguida (1280-1340), Dante e Virgilio incontrano la schiera degli indovini (XIV secolo)

 

Di nova pena mi conven far versi

e dar matera al ventesimo canto

de la prima canzon[1] ch’è d’i sommersi.

 

Io era già disposto tutto quanto

a riguardar ne lo scoperto fondo,

che si bagnava d’angoscioso pianto;

 

e vidi gente per lo vallon tondo

venir, tacendo e lagrimando, al passo

che fanno le letane[2] in questo mondo.

 

Come ’l viso mi scese in lor più basso,

mirabilmente apparve esser travolto

ciascun tra ’l mento e ’l principio del casso;

 

ché da le reni era tornato[3] ’l volto,

e in dietro venir li convenia,

perché ’l veder dinanzi era lor tolto.

 

Forse per forza già di parlasia[4]

si travolse così alcun del tutto;

ma io nol vidi, né credo che sia.

 

Se[5] Dio ti lasci, lettor, prender frutto

di tua lezione, or pensa per te stesso

com’io potea tener lo viso asciutto,

 

quando la nostra imagine di presso

vidi sì torta, che ’l pianto de li occhi

le natiche bagnava per lo fesso.

 

Certo io piangea, poggiato a un de’ rocchi[6]

del duro scoglio, sì che la mia scorta

mi disse: «Ancor se’ tu de li altri sciocchi?

 

Qui vive la pietà quand’è ben morta;

chi è più scellerato che colui

che al giudicio divin passion comporta?

 

Drizza la testa, drizza, e vedi a cui

s’aperse a li occhi d’i Teban la terra;

per ch’ei gridavan tutti: «Dove rui[7],

 

Anfiarao? perché lasci la guerra ».

E non restò di ruinare a valle

fino a Minòs che ciascheduno afferra.

 

Mira ch’à fatto petto de le spalle:

perché volle veder troppo davante,

di retro guarda e fa retroso calle.

 

Vedi Tiresia, che mutò sembiante

quando di maschio femmina divenne

cangiandosi le membra tutte quante;

 

e prima, poi, ribatter li convenne

li duo serpenti avvolti, con la verga,

che riavesse le maschili penne.

 

Aronta è quel ch’al ventre li s’atterga,

che ne’ monti di Luni, dove ronca[8]

lo Carrarese che di sotto alberga,

 

ebbe tra ’ bianchi marmi la spelonca

per sua dimora; onde a guardar le stelle

e ’l mar no li era la veduta tronca.

 

E quella che ricuopre le mammelle,

che tu non vedi, con le trecce sciolte,

e ha di là ogne pilosa pelle,

 

Manto[9] fu, che cercò[10] per terre molte;

poscia si puose là dove nacqu’io;

onde un poco mi piace che m’ascolte.

 

Poscia che ’l padre suo di vita uscìo,

e venne serva la città di Baco,

questa gran tempo per lo mondo gìo.

 

Suso in Italia bella giace un laco,

a piè de l’Alpe che serra Lamagna

sovra[11] Tiralli[12], ch’à nome Benaco.

 

Per mille fonti, credo, e più si bagna

tra Garda e Val Camonica e Pennino

de l’acqua che nel detto laco stagna.

 

Loco è nel mezzo là dove ’l trentino

pastore e quel di Brescia e ’l veronese

segnar poria, s’e’ fesse quel cammino.

 

Siede Peschiera, bello e forte arnese

da fronteggiar Bresciani e Bergamaschi,

ove la riva ’ntorno più discese.

 

Ivi convien che tutto quanto caschi

ciò che ’n grembo a Benaco star non può,

e fassi fiume giù per verdi paschi.

 

Tosto che l’acqua a correr mette co,

non più Benaco, ma Mencio si chiama

fino a Governol, dove cade in Po.

 

Non molto ha corso, ch’el trova una lama[13],

ne la qual si distende e la ’mpaluda;

e suol di state talor essere grama[14].

 

Quindi passando la vergine cruda[15]

vide terra, nel mezzo del pantano,

sanza coltura e d’abitanti nuda.

 

Lì, per fuggire ogne consorzio umano,

ristette con suoi servi a far sue arti,

e visse, e vi lasciò suo corpo vano.

 

Li uomini poi che ’ntorno erano sparti

s’accolsero a quel loco, ch’era forte

per lo pantan ch’avea da tutte parti.

 

Fer la città sovra quell’ossa morte;

e per colei che ’l loco prima elesse,

Mantua l’appellar sanz’altra sorte.

 

Già fuor le genti sue dentro più spesse,

prima che la mattia da Casalodi

da Pinamonte inganno ricevesse.

 

Però t’assenno che, se tu mai odi

originar la mia terra altrimenti,

la verità nulla menzogna frodi».

 

E io: «Maestro, i tuoi ragionamenti

mi son sì certi e prendon sì mia fede,

che li altri mi sarien carboni spenti.

 

Ma dimmi, de la gente che procede,

se tu ne vedi alcun degno di nota;

ché solo a ciò la mia mente rifiede».

 

Allor mi disse: «Quel che da la gota

porge la barba in su le spalle brune,

fu – quando Grecia fu di maschi vòta,

 

sì ch’a pena rimaser per le cune –

augure, e diede ’l punto con Calcanta

in Aulide a tagliar la prima fune.

 

Euripilo ebbe nome, e così ’l canta

l’alta mia tragedìa[16] in alcun loco:

ben lo sai tu che la sai tutta quanta.

 

Quell’altro che ne’ fianchi è così poco,

Michele Scotto fu, che veramente

de le magiche frode seppe ’l gioco.

 

Vedi Guido Bonatti; vedi Asdente,

ch’avere inteso al cuoio e a lo spago

ora vorrebbe, ma tardi si pente.

 

Vedi le triste che lasciaron l’ago,

la spuola e ’l fuso, e fecersi ’ndivine[17];

fecer malie con erbe e con imago.

 

Ma vienne omai, ché già tiene ’l confine

d’amendue li emisperi e tocca l’onda

sotto Sobilia Caino e le spine;

 

e già iernotte fu la luna tonda:

ben ten de’ ricordar, ché non ti nocque

alcuna volta per la selva fonda».

 

Sì mi parlava, e andavamo introcque.

 

[1] Come Dante stesso ci dice in un passo del De Vulgari Eloquentia II, VIII, 6, “canzone” è sinonimo di “cantica” per indicare le tre grandi parti (Inferno, Purgatorio, Paradiso) da cui è formato il poema (cfr. il francese chanson, usato nei testi medievali per indicare il poema epico).

[2] Equivale a “letànie” o “litanìe” (< latino tardo litaniae): sono le suppliche che si cantano durante le processioni e poi, per metonimia, le processioni stesse (come in questo caso).

[3] Francesismo semantico (cfr. tourner), col valore di “girare, volgere”, e non dell’italiano “ritornare”.

[4] Allotropo (cioè forma differente) arcaico per “paralisia” (it. mod. “paralisi”).

[5] Ancora una volta il “se” non ipotetico, ma con valore ottativo-desiderativo: “Ti auguro che Dio ti permetta…”.

[6] Sono i massi che sporgono naturalmente dalla roccia.

[7] Latinismo, dal verbo ruere, “correre” (cfr. l’italiano “irruente/irruento”, lett. “che corre, che si getta verso…”).

[8] Dal contesto si preferisce il significato di “coltiva, dissoda” a quello, pur plausibile, di “disbosca, taglia”.

[9] Aldilà della maggiore o minore attendibilità dell’etimologia del nome della città di Mantova (lat. Mantua) dal nome proprio Manto, c’è da rilevare che proprio il nome della indovina Manto (personaggio già presente nell’Eneide virgiliana al canto X) è da collegare al termine greco mántis/ μάντις (< verbo mantéuo/ μαντεύω, “vaticinare, dare oracoli”), che significa appunto “vate, indovino”.

[10] Col valore etimologico di “andare in giro, andare errando”, dal latino circare (< avverbio circa), “girare, andare intorno”.

[11] Nell’italiano antico col valore di “presso, vicino”.

[12] Forma derivata dal ladino Tiral, per indicare il Tirolo.

[13] “Lama” è un avvallamento, un luogo basso lungo il corso di un fiume. Il termine è d’uso corrente in fiorentino, ma lo si trova anche nel lessico topografico di parlate settentrionali (per es., le “lame” del fiume Sesia, in provincia di Vercelli).

[14] Termine di significato ambiguo, che può valere luogo sia “povero di acque” che “malsano”. Il contesto induce alla prima interpretazione, poiché “suol” e “talor” farebbero pensare, nella seconda ipotesi, ad una insalubrità saltuaria, cosa difficilmente plausibile, mentre si può dare che un luogo possa “normalmente” (“suol”) diventare povero di acque, ma in modo anche non continuativo (“talor”).

[15] Nel suo valore etimologico di “efferata, sanguinaria” (< lat. cruor, “sangue”), donde poi anche il significato di “non cotto”, poiché è ancora presente del sangue nella carne non ben cotta.

[16] Virgilio, definendo l’Eneide una “tragedia”, utilizza questo termine nel significato datogli dalla retorica medievale, cioè non una azione scenica di carattere tragico (come intendevano i greci e come intendiamo noi moderni), ma un componimento poetico di argomento grave, di stile elevato (appunto “tragico”) e di linguaggio eccelso (cfr. sempre Dante, De Vulgari Eloquentia II, IV, 5-7).

[17] Rispetto alla forma più comune (“indovinare”), questa usata dal Poeta rispetta maggiormente l’etimologia latina (< divinare).

 

 

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