Tolleranza religiosa – III

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Primo: La tolleranza religiosa – I

Secondo: La tolleranza religiosa – II

 

In maniera apparentemente paradossale, l’atteggiamento della Chiesa nei confronti degli eretici subì un “ammorbidimento” con la cristianizzazione dell’Impero e con la nascita degli Stati cristiani.

Quando il potere politico era ostile o, nella migliore delle ipotesi, neutrale, il problema delle devianze ereticali e dell’atteggiamento da tenere nei loro confronti si poneva unicamente sul piano dottrinale dei contenuti della Fede e su quello morale, senza coinvolgere l’aspetto squisitamente “politico”. Compito fondamentale della Chiesa e, in modo particolare, del Sommo Pontefice è quello di adempiere al comando di Nostro Signore a San Pietro: «Simone, Simone, ecco satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli»[1].

La salvaguardia della Fede, tanto nella sua purezza, quanto nella sua integralità, è il primo e fondamentale compito del Papa e di tutta la parte terrena della Sposa di Cristo, perché senza «la fede […] è impossibile essergli graditi; chi infatti s’accosta a Dio deve credere che egli esiste e che egli ricompensa coloro che lo cercano»[2]. Non è, quindi, possibile anche solo immaginare strumenti di Salvezza senza la correttezza della dottrina; e, come dicevamo, tale correttezza può essere aggredita sia per eccesso che per difetto.

Si ha aggressione per eccesso, quando, ai contenuti della Rivelazione, si aggiungono concetti ed idee che le sono estranei e che la contaminano, minandone la purezza, magari anche solo dando rilievo prioritario a ciò che è subordinato. Un esempio è rappresentato dal concetto modernista di «dignità dell’uomo». L’uomo non ha una dignità sua propria, ontologica, ma acquisisce dignità dal gratuito amore di Dio nei suoi confronti, amore che lo ha creato e, dopo che egli aveva perduto ogni valore ed ogni possibilità di rispetto con il peccato, lo ha redento, con il Santissimo Sacrificio del Calvario, dandogli, addirittura, la possibilità di salvarsi. Ne consegue che l’essere umano, ogni essere umano, ha una sua dignità solo per grazia e solo se e nella misura in cui si getta nell’amore redentivo di Dio: l’unica dignità dell’uomo è, quindi, quella di poter rendere gloria all’Onnipotente, salvando la propria anima.

Si ha aggressione per difetto, quando si nega o, anche solo, si sottace, sminuendone la portata, una qualche verità di Fede, della quale si mina, così, l’integralità. Esempio, fra i tanti, è la “dimenticanza” modernista del concetto di giustizia divina, con l’ovvia conseguenza di negare, almeno in via di fatto, la giusta pretesa punitiva di Dio.

In ambito religioso in senso stretto, ogni cedimento o, anche solo, accomodamento con l’eresia è, per definizione, inaccettabile. La severità della Chiesa, in questo campo, è sempre stata garanzia per il fedele. Sul piano politico, però, il discorso si fa più complesso, perché subentrano fattori di responsabilità collettiva, che, sul piano dell’etica individuale, non sono presenti.

Chi governa uno Stato porta la responsabilità, nei limiti del prevedibile, delle conseguenze che le sue azioni, tanto sul piano legislativo quanto su quello esecutivo, produrranno. Questo non significa che il detentore del potere politico, come erroneamente diceva Niccolò Machiavelli (1469-1527), sia svincolato dalla morale o, anche solo, abbia una maggiore “libertà” d’azione; significa esattamente il contrario, vale a dire che l’uomo di Stato ha delle responsabilità che altri non hanno e, anzi, ha addirittura delle responsabilità per le azioni altrui. In linea di principio, questo vale per chiunque si trovi ad esercitare, a qualunque livello, un’autorità o, anche solo, un potere (dal dare un consiglio ad una persona che si fida al governare uno Stato o, addirittura, la Chiesa universale): nell’agire, deve sempre porsi il problema di non creare un male maggiore di quello che vuole combattere; o, detto in altri termini, nessuno può sentirsi giustificato a causare un male maggiore dal fatto di prevenirne o reprimerne uno minore. È il delicatissimo problema della tolleranza: quando, posto che se ne abbia l’autorità ed il potere, è doveroso reprimere un male e quando, invece, è doveroso tollerarlo, per evitare un male maggiore?

Premesso che non è mai lecito approvare un errore e/o compiere un’azione malvagia, in alcuni casi può essere opportuno e, conseguentemente, doveroso astenersi dal reprimere un male, senza, però, mai approvarlo e, tanto meno, riconoscerlo come diritto; ciò avviene quando la repressione causerebbe un male maggiore di quello che consegue alla tolleranza. La valutazione, però, deve essere fatta con molta attenzione, tenendo conto di tutti gli effetti, sia diretti che indiretti, che l’esercizio del potere, in un senso come nell’altro, potrebbe produrre.

Questi principi, in capo al detentore del potere politico, acquisiscono una valenza particolare, poiché i suoi atti vengono ad assumere valenza generale. Uno Stato, come tutte le società perfette[3], può legittimamente essere inteso e sentito dai suoi cittadini come un universo a sé stante, con la conseguenza che le sue leggi e, più in generale, le sue norme interne acquisiscono valore universale. Le norme statuali, quindi, contribuiscono a forgiare il costume e la mentalità dei popoli, per il naturale affidamento che i sudditi legittimamente hanno della loro congruità al raggiungimento del fine dello Stato stesso.

Il fine dello Stato scaturisce dalla natura sociale dell’uomo. L’uomo, come insegna Aristotele (384-322 a.C.), non è atto a vivere isolato, ma ha bisogno di vivere in comunità, per meglio realizzare il suo fine, vale a dire l’essere sempre più perfettamente conforme alla natura umana; questo è tanto come dire che il momento politico è parte integrante della natura dell’uomo e non un accidente artificiale dovuto alla cultura, come erroneamente sosteneva, ad esempio, Jean-Jacques Rousseau (1712-1778). La più evoluta forma di comunità politica conosciuta finora dall’umanità è lo Stato, che, quindi, ha come suo fine essenziale quello di permettere ai suoi cittadini di vivere «bene», ovvero di avere la possibilità di perseguire la propria finalità ultima, umanamente parlando. Ne consegue che i cittadini siano legittimamente limitati nella loro libertà dai poteri statuali. Questo, al contrario di quanto erroneamente affermato da tutte le «tesi contrattualiste»[4], non nasce da un accordo, ma è insito nella natura umana, cosicché l’uomo non nasce libero, per, poi, rinunciare a parte di questa sua naturale autodeterminazione, in cambio di vantaggi pratici, ma nasce già soggetto alla comunità politica cui appartiene, proprio in virtù della sua natura sociale.

Da tutto quanto detto, si comprende come il cittadino sia istintivamente propenso a considerare le norme provenienti dallo Stato come strumenti che lo agevolino nel cammino verso il raggiungimento di una sempre più perfetta aderenza alla propria natura. Questo affidamento non è solo naturale, ma anche, sia pure fino a prova contraria, assolutamente legittimo.

Di qui discende il “valore etico” delle leggi e, più in generale, di tutte le norme provenienti dallo Stato. Tali disposizioni assumono un valore morale non nel senso di “creare” l’etica, ma nel senso diametralmente opposto di esserne soggette. La natura umana, come dicevamo, postula il sommo dovere dell’uomo, di ciascun uomo, di aderire, nella maniera più perfetta possibile, alla propria natura; di qui discende tutta l’etica naturale, vale a dire quell’insieme di princìpi e di regole che lo guidino, concretamente, su questa strada. Avendo, come detto, l’uomo natura sociale, alcuni di questi principi debbono essere collettivamente imposti dallo Stato[5]: è il diritto naturale (qui). Ne consegue che le leggi e le norme che ciascuno Stato emana debbano essere nient’altro che l’applicazione del diritto naturale alla concreta fattispecie politica in cui si trova vivere (qui e qui). Di qui, il fatto che il cittadino attribuisca naturalmente ed istintivamente alle leggi statuali una conformità al diritto naturale e, per suo tramite, all’etica naturale o, per dirla in altri termini, che le presuma buone.

Da tutto quanto detto, risulta chiaro che, tra gli effetti negativi della tolleranza di un male che debbono essere ponderati, posto non secondario riveste il rischio di deterioramento del costume e del senso etico della popolazione, che può conseguire da tale “permissiva” legislazione. Per evitare o, almeno per ridurre, questo pericolo, è necessario che la normativa tollerante renda chiaro che la mancata repressione penale non è dovuta ad un’approvazione o, anche solo, ad un’indifferenza, ma solo alla tolleranza di tale male, che, ovviamente, non per questo trova giustificazione o attenuazione della condanna. È evidente che tanto più il male è oggetto di diffusa e collettiva condanna sociale, tanto più è possibile attenuarne la repressione e, a contrario, tanto più una malvagità è socialmente tollerata o, addirittura, approvata, tanto più è necessario il rigore della legge nel reprimerla, proprio per ristabilire il fine di educazione etica della norma statuale.

 

(3-continua)

 

[1] Lc 22,31-32.

[2] Eb 11,6.

[3] Per società perfetta si deve intendere quella società che persegue come fine un bene completo, vale a dire che non necessita, per sussistere, di apporti esterni, ma che, una volta realizzato, è sufficiente a se stesso, e che possiede i mezzi necessari per conseguirlo, senza necessità di trarli da fuori di sé.

[4] Per «tesi contrattualista» deve intendersi l’idea liberale secondo la quale lo Stato sarebbe sorto in virtù di un patto (contratto), con cui gli uomini, liberi per natura, avrebbero rinunciato, a suo favore, a parte di questa loro libertà, in cambio di alcuni vantaggi pratici, primo fra tutti quello alla sicurezza.

[5] Qui Stato viene utilizzato, per metonimia, nel senso di «comunità politica», essendone oggi la forma quasi universale.

 

 

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