Il Qatar è fuori dall’Opec

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Il 3 dicembre scorso, il Ministro dell’Energia del Qatar, Saad Sherida Al-Kaabi, ha annunciato che, dal 1º gennaio prossimo venturo, il suo Paese lascerà l’Opec[1]. Questa mossa non preannuncia grandi rivolgimenti economici ed avrà un peso trascurabile sulle variazioni del prezzo del petrolio, poiché il Qatar rappresenta meno del 2% delle esportazioni petrolifere dell’Organizzazione; essa, però, rende ancora più evidente la spaccatura del fronte islamista sunnita a livello planetario, già emersa nella vicenda dell’uccisione del giornalista Ahmad Khashoggi Jamal (1958-2018) nel consolato saudita di Istanbul (qui).

Tale fronte vedeva contrapposti due poli politico-religiosi e geo strategici: da un lato, il mondo wahabita, capeggiato dall’Arabia Saudita, e, dall’altro, quello dei Fratelli musulmani, capeggiato militarmente dalla Turchia ed economicamente dal Qatar.

La Fratellanza musulmana, fondata nel 1928 da Hasan al-Banna (1906-1949) in Egitto, è un movimento prima religioso e poi politico, teso a ricostituire l’Umma islamica dal basso: parte dall’idea che sia prioritaria l’islamizzazione della società, rispetto alla presa del potere politico, con la conseguente enorme rilevanza dell’aspetto etico dei suoi membri, anche in posizione apicale; questo approccio si concretizza in una rivoluzione permanente, con durissima repressione di ogni comportamento che violi le norme islamiche, a qualunque livello esso venga compiuto, mentre permette una certa disinvoltura nei rapporti internazionali. Il primo obiettivo, quindi, è l’islamizzazione della società nel Paese in cui opera, nel caso di specie l’Egitto; una volta realizzata, sarà questa stessa società, ritornata all’originale sequela del Profeta, a darsi istituzioni politiche rigidamente musulmane; questo Stato islamico, poi, concorrerà ad unificare l’Umma, che, una volta unificata, procederà alla sottomissione di tutto l’orbe terracqueo. In Egitto subisce una repressione a fasi alterne da parte del regime nasseriano; dopo la caduta del presidente Muhammad Hosni Sayyid Ibrahim Mubārak (2011), vincono le elezioni presidenziali con Muḥammad Mursī ʿĪsā al-ʿAyyāṭ (2012) e prendono il potere, ma vengono deposti l’anno successivo dal colpo di Stato guidato dal generale ʿAbd al-Fattāḥ al-Sīsī, che ne proclama lo scioglimento e ne dichiara illegale la ricostituzione.

Sul piano internazionale, si costituiscono varie organizzazioni politiche che si richiamano, in maniera più o meno stretta, all’osservanza della dottrina della Fratellanza un poco in tutto il mondo arabo e tra gli immigrati musulmani d’Occidente, delle quali la più importante è Ḥamās, che, di fatto, governa Gaza. Nel nostro Paese, a tali dottrine si rifà l’Unione delle Comunità islamiche d’Italia (Ucoii). I Fratelli musulmani sono espressamente considerati organizzazione terroristica in Bahrein, Egitto, Russia, Siria, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Tagikistan ed Uzbekistan, mentre godono dell’appoggio pressoché incondizionato di Turchia e Qatar.

Impostazione diametralmente opposta ha, invece, il mondo wahabita. Il Wahhabismo è la lettura dell’Islam che si rifà a Muḥammad ibn ʿAbd al-Wahhāb (1703-1792), che si pone come il restauratore del credo musulmano e, soprattutto, della prassi etica e politica che possa considerarsi islamicamente lecita. L’Islam, almeno nel mondo sunnita, è un’ortoprassi, vale a dire un insieme di regole etiche da seguire, più che un’ortodossia, vale a dire una visione di Dio e del mondo, da cui discende una morale, poiché Dio è considerato assolutamente inconoscibile, di fatto una parete nera. Ne consegue che i seguaci di Maometto si dividono in scuole giuridiche, più che in correnti dottrinali. La principale e più rigorosa di queste scuole giuridiche è quella definita «hanbalita», che si caratterizza per l’interpretazione maggiormente letterale dei dettami dei testi sacri; a tale scuola giuridica appartiene il Wahhabismo. Sua caratteristica fondamentale e maggiormente pubblicizzata, soprattutto negli ultimi decenni, è la sua rigida pretesa di escludere dal novero dei musulmani tutti i seguaci di interpretazioni meno letterali dei testi sacri e, in particolare, gli sciiti. La conseguenza pratica è molto pesante, poiché coloro che si dichiarano islamici, cioè sottomessi a Dio, e poi danno una lettura “distorta” della sua parola sono, tecnicamente parlando, degli apostati e, come tali, sono rei di morte. La fortuna politica del Wahhabismo è stata quella di legarsi, fin dal XVIII secolo, alla Casa di Āl Saʿūd. Esso è diventato il credo della dinastia, che lo ha protetto, sino all’ultimo trentennio del XX secolo, quando si è espanso in tutto il mondo, come la forma di fondamentalismo islamico più estrema e, conseguentemente, più affascinante. Vi appartengono o ne sono fortemente influenzati, solo per fare alcuni esempi, i talebani afghani, Al-Qāʿida ed il Califfato di Siria ed Iraq.

L’etica islamica dei governanti viene ritenuta irrilevante, a patto che, però, impongano un regime islamico all’interno dello Stato. L’idea è quella che sia lo Stato a forgiare l’individuo e non viceversa e che, quindi, l’imposizione di una legislazione islamica produrrà automaticamente una società islamizzata, formata da buoni musulmani.

Il Califfato in Siria ed Iraq, finché è esistito, in dimensioni e potenza tali da rappresentare un polo attrattivo, ha tenuto insieme queste due visioni, divenendo la punta di lancia dell’Islam politico a livello mondiale. Quando, invece, le truppe siriane del Presidente Bashar Hafiz al-Asad, appoggiate dalla Russia, lo hanno gettato nell’«immondezzaio della Storia», per utilizzare la nota espressione leninista, i contrasti tra i due poli opposti dell’Islam politico sono riemersi, nella loro tradizionale lotta per l’egemonia di quel campo.

Le ostilità sono state aperte in modo plateale dal capo wahabita e, segnatamente, dall’Arabia Saudita, che ha appoggiato senza riserve, già ben prima della caduta del Califfato, il colpo di Stato del generale ʿAbd al-Fattāḥ al-Sīsī in Egitto (2013), con l’evidente intento di colpire i Fratelli musulmani. La risposta del Qatar è stata più sfumata, concretizzandosi nel sostegno finanziario a tutte le organizzazioni che si ispirano ad Hasan al-Banna (1906-1949), nel rendere sempre più stringente l’alleanza militare con la Turchia, arrivando fino a concedere ad Ankara l’installazione di una base militare a pochi chilometri da Doha, dove, attualmente, pare ci siano ancora solo poche centinaia di soldati, che, però, paiono destinati a raggiungere almeno il numero di cinquemila, e nel rendere la sua posizione internazionale sempre più morbida nei confronti dell’Iran.

La contro-risposta è stata durissima. Nel giugno del 2017, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Mauritius e Yemen hanno ritirato i loro ambasciatori dal Qatar ed hanno espulso quelli di quel Paese accreditati presso di loro; Riad ha bloccato ogni confine, terrestre marittimo e aereo, tra i due Stati; tutti questi Paesi hanno decretato l’embargo pressoché totale nei confronti di Doha. Tutto questo è stato accompagnato da una lettera in cui veniva richiesto l’adempimento di tutto una serie di condizioni, tra cui la chiusura della base turca in territorio qatariota e dell’emittente Al Jazeera, giustificando il tutto con l’asserito sostegno del Governo di Doha al non meglio specificato «terrorismo internazionale», in relazione al suo appoggio alla Fratellanza musulmana (e, quindi, ad Hamas) ed alle relazioni, non ufficiali, ma presunte come sempre più strette con l’Iran.

I rapporti tra il Qatar e Teheran sono effettivamente reali ed importanti, almeno sul piano economico. Doha è uno dei principali esportatori di gas naturale al mondo ed il primo di gas naturale liquefatto; uno dei maggiori giacimenti di gas lo ha in comune con l’Iran e, conseguentemente, non fosse altro che per il suo sfruttamento, non può fare altro che intrattenere relazioni non ostili con il potente vicino. A tutto ciò, poi, si deve aggiungere che la Turchia, dopo la sonora sconfitta nella sua guerra per procura in Siria, ha cercato e cerca di migliorare i propri rapporti con la Russia e con il regime degli ayatollah.

Da tutto quanto detto si può desumere che il fronte dei Fratelli musulmani e dei loro alleati si vede costretto ad accettare, se non una vera e propria alleanza, almeno un’attenuazione dell’ostilità nei confronti della Repubblica sciita.

A complicare ulteriormente la situazione, sono venute le conseguenze del caso Khashoggi: l’opinione pubblica statunitense ed i giornalisti, in modo particolare, hanno costretto la Presidenza Trump ad assumere un atteggiamento di maggiore ostilità, almeno formale, nei confronti dell’Arabia Saudita e, segnatamente, del suo uomo forte, Principe Moḥammad bin Salmān Āl Saʿūd, accusato dai media americani di essere il mandante dell’omicidio. Questo fatto ha permesso alla Russia di migliorare sensibilmente i suoi rapporti diplomatici ed economici con Riad, ponendo i presupposti per fare di Mosca il più importante mediatore nell’area, soprattutto tenuto conto delle ottime relazioni che essa ha con l’Iran e gli sciiti in genere ed il miglioramento di quelle che intrattiene con il blocco Turchia-Qatar.

I giochi, come sempre in Medio Oriente, sono aperti e si prestano ad un’ulteriore girandola di alleanze, al cui confronto i «giri di valzer» della Belle Époque appaiono statica “guerra di trincea”.

 

 

[1] L’Opec, Organization of the Petroleum Exporting Countries (Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio), nasce nel 1960 a Baghdad dal desiderio di Iran, Iraq, Kuwait, Arabia Saudita e Venezuela di coordinare le proprie politiche petrolifere, soprattutto al fine di contrastare l’egemonia di quelle che Enrico Mattei (1906-1962) aveva definito le «sette sorelle» (Esso, Shell, British Petroleum, Mobil, Texaco, Chevron e Gulf Oil), ma più in generale quello delle multinazionali statunitensi e britanniche del settore. Nel 1961, vi aderisce il Qatar, che ne uscirà alla fine di quest’anno; nel 1962, aderiscono la Libia e l’Indonesia, che se ne ritira nel 2008, salvo tornare a far parte, solo per pochi mesi, nel 2016. Nel 1965, sposta la sua sede da Ginevra a Vienna. Nel 1967, vi aderiscono gli Emirati Arabi Uniti; nel 1969, l’Algeria; nel 1971, entra la Nigeria; nel 1973 vi aderisce l’Ecuador, che ne esce nel 1992, per rientrarvi nel 2007; nel 1975, vi aderisce il Gabon, per uscirvi nel 1994 e rientrarvi nel 2016; nel 2007 vi entra l’Angola; nel 2017, la Guinea Equatoriale; e, nel 2018, la Repubblica Democratica del Congo. Il peso geopolitico dell’organizzazione, che tocca il suo culmine nel 1973, quando, controllando circa i 2 terzi della produzione mondiale di petrolio, per appoggiare il fronte arabo contro Israele nella guerra dello Yom Kippur (6-25 ottobre 1973), scatena una delle più importanti crisi energetiche della storia, facendo impennare il prezzo dell’oro nero di circa il 70%, decresce gradualmente, soprattutto per la capacità delle economie occidentali di ridurre la loro dipendenza da tale materia prima e per l’affacciarsi sul mercato di grandi Paesi esportatori esterni all’Opec, quali gli stessi Stati Uniti, il Messico, il Canada, il Kazakistan la Russia e la Norvegia, oltre al Bahrein e ed all’Oman, che, pur essendo Paesi della Penisola arabica, non vi aderiranno mai.

 

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