Lettera al Direttore di Paolo Andreini

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Egregio Direttore,

partendo dai tragici fatti di Strasburgo, mi permetto di sottoporLe una riflessione più generale. La stragrande maggioranza degli attentatori sono cittadini europei, magari figli o nipoti di immigrati. Godono di tutti i diritti di cui sono provvisti i cittadini. Non mi stupirei se dovessimo, in un futuro non tanto remoto, assistere ad attentati compiuti da persone che non discendono dagli immigrati, ma che si sono fatti irretire dall’ideologia jihadista. Stando così le cose, non pensa che la questione si sposti dal piano “militare” della lotta all’immigrazione clandestina a quello, più sottile, della battaglia culturale?

E, se sì, non sarebbe opportuno spostare anche fondi dalla repressione del fenomeno migratorio verso politiche attive di integrazione?

Augurando buon lavoro a Lei ed a tutti i Suoi collaboratori, porgo cordiali saluti.

Paolo Andreini – mediatore culturale

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Egregio Signor Andreini,

quello che Ella afferma nella prima parte della Sua cortese lettera è, come tutti i fatti, indiscutibile: i terroristi islamici che hanno compiuto attentati in Europa sono, nella loro stragrande maggioranza, cittadini europei e come tali godono di tutti i diritti, senza che possano essere soggetti a discriminazione alcuna.

Anche sulla possibilità che europei non discendenti da immigrati possano, in linea di principio, compiere attentati terroristici di matrice islamica, mi sento di convenire totalmente con Lei: è, purtroppo, un rischio concreto che corriamo. Dove, assolutamente, non posso convenire con Lei, è quando afferma che costoro si sarebbero «fatti irretire dall’ideologia jihadista».

Quella jihadista non è un’ideologia, ma una religione, con tutto quanto più profondo e di più intimamente coinvolgente sia contenuto in questo termine. E la religione jihadista è l’Islam sunnita non sufi. L’affermazione Le potrà apparire eccessivamente perentoria, quasi non tenesse conto delle differenze esistenti all’interno del mondo sunnita non sufi; mi permetterò, quindi, di cercare di dimostrarla, pregando Lei e tutti i lettori di riferire quanto scriverò in seguito solo all’Islam sunnita non sufi, che rappresenta più dell’80% dei fedeli di Maometto, escludendo tutte le altre accezioni musulmane.

Come Ella saprà, lo Jihad, che, in arabo, significa «sforzo», è uno dei più importanti comandi, se non il più importante, dell’etica islamica e si divide in «Jihad maggiore» e «Jihad minore».

Lo «Jihad maggiore» è lo sforzo, la violenza che ciascuno deve esercitare su se stesso per far aderire tutta la propria persona alla volontà di Dio, prima, e per adempiervi in tutto, poi.

Lo «Jihad minore», invece, è l’utilizzo della violenza per «reprimere il male e favorire il bene». E qui si racchiude tutto l’Islam, che non è un’ortodossia[1], ma un’ortoprassi[2]. Lo stesso termine Islam significa «sottomissione», sottinteso a Dio, senza nessuna implicazione di carattere gnoseologico o, tanto meno, spirituale (e qui si comprende per quale ragione abbiamo escluso da queste definizioni tutte le correnti sufi). Di Dio non si può dire nulla, Egli è come una parete nera impenetrabile all’intelligenza umana sarebbe atto di ὕβϱις (=übris)[3], come direbbero i greci, anche solo pensare di poter comprendere qualcosa di Dio e di poterne ragionare. Di Dio si conosce solo la sua volontà e, quindi, la religione diviene unicamente un insieme di comandi da seguire. Da ciò consegue che tutti sono, indistintamente, chiamati ad osservare queste norme, indipendentemente dal fatto che siano musulmani o meno. E lo Jihad minore è proprio il sacro dovere, in capo ad ogni buon musulmano, di reprimere i comportamenti contrari ai comandi divini e di favorire il corretto adempimento di quegli stessi obblighi, anche attraverso atti di violenza, come lo stesso Maometto dà l’esempio in vari episodi riportati nella Sira, vale a dire la biografia islamica del Profeta, terzo libro sacro dell’Islam e vincolante per l’etica del buon musulmano. Solitamente vediamo tradurre lo Jihad minore con «guerra santa»; ma la traduzione è inesatta, poiché un conflitto comporta dichiarazioni di guerra, gerarchie, ordini, regole di ingaggio… tutte imitazioni della violenza che lo Jihad minore non contempla, in quanto è affidato unicamente allo zelo religioso del singolo.

E questo non vale solo per una minoranza di fanatici, che, magari, come ci raccontano tante anime belle, deturpano il volto di pace dell’Islam; questo vale, in senso assoluto, per più dell’80% dei musulmani sulla faccia della terra e, in senso almeno relativo, per molti di più.

Sorge, questo punto, spontanea una domanda: perché, essendoci del mondo circa 1,5 miliardi di persone che si dichiarano seguaci dell’Islam sunnita non sufi, ci sono così “pochi” attentati terroristici e, in genere, atti di violenza di matrice islamica?

I motivi sono fondamentalmente due. In primo luogo, come recita un antico adagio popolare, «l’uomo è sempre, nel bene come nel male, al di sotto dei suoi ideali»: un conto è professare teoricamente l’obbligo dello Jihad minore, magari senza neppure conoscerne a fondo il significato, un altro è andare in giro ad uccidere il prossimo, con la disponibilità ad immolare la propria vita a questo scopo.

L’altro motivo è di carattere più pratico e politico: in tutto mondo islamico, non essendoci distinzione tra elemento religioso ed elemento politico, le moschee ed ogni attività religiosa viene rigorosamente controllata dallo Stato e fa capo al potere politico, che, per evitare il caos che conseguirebbe all’applicazione dello Jihad minore, così come lo abbiamo descritto, senza nulla togliere al principio, si riserva di regolamentarne le modalità di attuazione e, quindi, tende ad avvicinare il concetto di Jihad minore a quello di guerra santa, indirizzando lo zelo dei più osservanti contro i propri nemici interni ed esterni.

Tutto ciò premesso (ma l’argomento è tanto vasto da non poter essere esaurito, se non per accenni, in una risposta ad una gentile lettera al Direttore), consegue anche il giudizio sulla Sua proposta di distrarre fondi dalla sicurezza per incrementare quelli stanziati per l’integrazione. Poiché il problema non risiede tanto in una interpretazione, tra l’altro vietata dall’Islam, più o meno fondamentalista, contrapposta ad una più o meno secolarizzata, ma nella stessa religione fondata da Maometto e poiché i principi cardine dell’integrazione si basano sull’equidistanza dello Stato da ogni forma di culto, l’aumento dell’attività della cosiddetta «integrazione» si risolverebbe, di fatto, in una ulteriore legittimazione alla sequela del profeta meccano, pare che sarebbe opportuno fare l’operazione diametralmente opposta e dirottare fondi dall’integrazione alla sicurezza, soprattutto intesa come prevenzione.

Mi permetto di ricordare che uno dei motivi che maggiormente legittimano, anche in un ragionamento ad hominem, la violenza nei confronti dell’Occidente è la sua pretesa (e, purtroppo, sovente reale) debolezza morale, la sua incapacità anche solo di concepire l’idea di combattere e morire per le proprie idee e per i propri valori. L’esempio del rispetto che la Fede cristiana coerentemente vissuta incute nei musulmani è l’episodio di San Francesco (1181-1226), che, nel 1219, recatosi in Egitto all’accampamento del sultano ayyubide al-Malik al-Kāmil (1177-1238), nipote di Saladino (1137-1193), per convertire lui alle sue truppe, alla presenza del sultano e di fronte al suo rifiuto di convertirsi, ribadì la santità della crociata e della guerra contro l’Islam; il sultano, ammirato da tanto coraggio, lo rimandò sano e salvo, con il frate che lo accompagnava, all’accampamento crociato.

Premesso che l’opera delle nostre forze di polizia e dei nostri servizi di sicurezza debba essere preservata ed ampliata, certamente un approccio meno “ecumenico” e di maggiore coscienza del pericolo islamico può aiutare a prevenire la violenza dei seguaci di Maometto.

 

[1] Per ortodossia, deve intendersi un insieme di verità che debbono essere credute a pena di cessare di appartenere alla religione così non più professata.

[2] Per ortoprassi, deve intendersi un insieme di regole di comportamento, la cui mancata osservanza espone al rischio di espulsione da un certo gruppo sociale.

[3] Per ὕβϱις (=übris), si deve intendere l’iniquo orgoglio dell’uomo che si pone al di sopra degli dèi.

 

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