Un romanzo sulla Vandea di Giulio Verne, pubblicato da Solfanelli, e la canzone di Jean Pax Méfret

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Emilio Salgari e Giulio Verne erano spesso accumunati insieme nelle biblioteche italiane della prima metà del Novecento. I loro romanzi, ricchi di avventura e di fantasia, che appassionavano ragazzi e adulti, si caratterizzavano sulla buona letteratura di stampo cristiano-europeo, dove il male era male e il bene era bene, non c’erano ermeneutiche ambigue e fuorvianti, così come erano bandite psicanalisi deformanti. Letteratura che dilettava e formava allo stesso tempo, dove storia, luoghi esotici, fantascienza, creatività e coscienza dell’esistere venivano abilmente presentati nel rispetto del lettore.

Il lettore, a maggior ragione il ragazzo, era sempre rispettato sia in Salgari che in Verne. La cruda realtà emergeva attraverso il filtro di un narratore che puntava alla ragione, alla moralità, alla giustizia senza grossolamente sbattere in faccia, come oggi avviene in una crassa letteratura per giovani e/o per adulti, il male per il male, istigando negli animi il sapore per il male, se non di farlo personalmente, anche solo di andarne a leggere dell’altro, di vederne dell’altro, di ascoltarne dell’altro.

L’Editore Solfanelli ci regala, fresco di stampa, un romanzo di Giulio Verne, Il Conte di Chanteleine. Un episodio del Terrore (pp. 127, € 12,00) , che in Italia non era presente dal 1894, e la ragione è ben comprensibile: il tema trattato è la guerra civile che si scatenò in Francia ai tempi del Terrore e che diede vita alla mattanza delle «colonne infami» giacobine della guerra di Vandea, un capitolo di storia controrivoluzionaria e, dunque, omessa totalmente cancellata fino al principio degli anni Ottanta dello scorso secolo, quando nel 1983 Reynald Secher terminò il dottorato in scienze storiche e politiche alla Sorbona di Parigi, con una tesi dal titolo La Chapelle-Basse-Mer, village vendéen. Révolution et contre-révolution. Lo studio analizzava la situazione prima e dopo l’insurrezione, a livello culturale, politico, sociale, economico e religioso, del piccolo comune vandeano, La Chapelle-Basse-Mer, crocevia fra la Vandea Militare e la Bretagna.

I professori con i quali discusse la sua tesi, in particolare Jean Meyer (relatore della tesi) e Pierre Chaunu, lo invitarono ad amplirare i suoi studi dal piccolo villaggio a tutta la prima e seconda guerra di Vandea. Così, nel 1985, per il suo dottorato di Stato in scienze umanistiche, discusse una tesi dal titolo Contribution à l’étude du génocide franco-français: la Vendée-Vengé, pubblicata l’anno dopo con il titolo: Le génocide franco-français: la Vendée-Vengé.

Per formulare la sua tesi, Secher analizzò documenti privati come memorie e lettere dei protagonisti della guerra e documenti pubblici conservati negli archivi diocesani e parrocchiali, nei municipi, nei dipartimenti e negli archivi militari della fortezza di Vincennes (Parigi). I primi testi che trattarono del genocidio vandeano furono le memorie di alcuni dei protagonisti di quei tragici eventi: la marchesa La Rochejaquelein, Poirier de Beauvais, Joseph de Puisaye, la signora Sapinaud de La Rairie e per i repubblicani: Grouchy, Kléber, René-Pierre Choudieu, Turreau, Dumas. Il più celebre documento, del primo raggruppamento di testimoni, sono le Mémoires (1811) de Madame la marquise de la Rochejaquelein, vedova di Louis Marie de Lescure e in seguito di Louis de La Rochejaquelein, che essendo vedova di due tra i più importanti generali dell’Esercito cattolico e reale visse in prima persona tutte le guerre di Vandea, che descrive come una rivolta spontanea dei contadini per difendere il loro re e la loro Chiesa. Secher  si servì anche del libro di François-Noël Babeuf ( 1760 – 27 maggio 1797), un cronista del tempo della Rivoluzione francese che, nel 1794 pubblicò un libro dal titolo Du système de dépopulation ou La vie et les crimes de Carrier (ovvero Il sistema di spopolamento e i crimini di Carrier). Nel libro è coniato un neologismo: populicidio. La differenza con il termine genocidio, coniato da Lemkin nel 1944, è solo nell’etimologia: genocidio deriva dal greco ghénos (razza, stirpe) e dal latino cædo (uccidere), mentre populicidio deriva del latino populus (popolo). Il libro venne pubblicato in Italia nel 1989 da Effedieffe, ancora oggi in commercio, dal titolo: Il genocidio vandeano. Il seme dell’odio.

La Convenzione nazionale[1] ordinò di distruggere tutte le copie del libro di Babeuf, ma Secher ne trovò una delle otto ancora esistenti nell’ex-Urss (dove i libri di Babeuf circolavano perché considerato il padre del comunismo). Dopo la pubblicazione della sua tesi, Secher decise di ripubblicare anche il testo di Babeuf, che riteneva una delle fonti più importanti del suo lavoro.

Il genocidio vandeano, che massacrò uomini, sacerdoti, religiosi, donne, bambini… bruciando case, aie, raccolti e animali (nulla doveva rimanere!)  avvenne nel periodo che va dal novembre 1793 all’aprile 1794, durante il quale non ci furono scontri militari in quanto l’armata vandeana era stata sconfitta al Virée de Galerne. Le vittime della repressione non furono soltanto gli insorti superstiti, ma anche e principalmente i civili che abitavano nella Vandea. La Convenzione stabilì, infatti, con diversi provvedimenti e decreti, di sterminare tutti gli abitanti della Vandea indipendentemente dalla loro partecipazione all’insurrezione, non distinguendo perciò fra combattenti e civili, tra cui donne e bambini e nemmeno fra controrivoluzionari e rivoluzionari. Da qui, pertanto la realizzazione, nella terra della Vandea, il primo genocidio di Stato della storia occidentale.

Il regime rivoluzionario di Parigi venne imposto con la forza nelle province di Francia ed ebbe in Vandea, la più cattolica di esse, la reazione più coraggiosa e gloriosa. I Blanchs (i vandeani) si contrapposero ai Blues (i giacobini): uniti a Dio e al Re, i contadini della Vandea, con i loro amati sacerdoti e i loro generali, si distinsero per la strenua difesa contro la dea ragione ed il principio deista dell’essere supremo; perciò, a causa del loro fermissimo Credo e della loro fedeltà monarchica, vennero massacrati. Per odio ideologico perirono, in quell’ecatombe, più di 30 mila abitanti. Tuttavia di questo evento storico o si è parlato in termini negativi per esaltare i “benefici” della Rivoluzione e del Terrore sanguinario oppure lo si è del tutto omesso dai libri di storia…

L’ Esercito cattolico e reale era formato da quei francesi contrari alla rivoluzione e che invece sostenevano la monarchia, in particolare era composto da contadini della cosiddetta «Vandea Militare», composta dai dipartimenti di Vandea, Loira Atlantica, Maine-et-Loire e Deux-Sèvres. I capi furono scelti tra la nobiltà francese che non era emigrata in altri Stati, per paura della cattura e della ghigliottina, ma che rimase in Francia per cercare di ristabilire la monarchia.

L’ Esercito nacque il 4 aprile 1793, in seguito alla riunione dei principali capi vandeani avvenuta a Chemillé, in seguito alla quale venne scelto come comandante in capo (che verrà chiamato «Generalissimo») Jacques Cathelineau. Da Parigi, intanto, la Convenzione, ordinò la «pulizia etnica» dei «briganti» vandeani.

I principali capi militari dell’Esercito cattolico e reale furono: Jacques Cathelineau, François-Athanase Charette de La Contrie, Charles Melchior Artus de Bonchamps, Maurice-Louis-Joseph Gigot d’Elbée, Louis Marie de Lescure, Henri du Vergier de La Rochejaquelein, Jean Nicolas Stofflet, Jacques Nicolas Fleuriot de La Fleuriais, Charles Sapinaud, Louis e Auguste du Vergier de La Rochejaquelein (entrambi fratelli di Henri de La Rochejaquelein), Charles d’Autichamps. Alcuni di questi valorosi e cattolici generali[1] sono ricordati nella bellissima canzone di Jean Pax Méfret, Guerre de Vendée.

 

 

L’insurrezione vandeana si unì al movimento degli chouans, sviluppatosi in Bretagna, Maine e Normandia, che andò incontro a una spietata repressione da parte dei giacobini. I vandeani, dopo avere beneficiato di un’amnistia a opera dei termidoriani, sotto la guida di nobili tra cui il conte d’Artois, il futuro sovrano Carlo X, al servizio degli inglesi ripresero l’insurrezione nel 1796, venendo sconfitti dal generale Hoche. Varie ribellioni scoppiarono infine in Vandea nell’età napoleonica, e furono ancora represse. L’ultima fiammata insurrezionale avvenne nel 1832, per restaurare i Borbone cacciati dal trono dalla rivoluzione del 1830.

Jules Verne (1828-1905), italianizzato in Giulio a motivo della sua grande popolarità nella penisola, per realizzare il suo romanzo storico si ispirò a fatti (l’azione si svolge fra Nantes e Douarnenez, dal 14 marzo 1793 al 27 luglio 1794, ovvero il 9 Termidoro, data del colpo di Stato antigiacobino e dell’arresto di Ribespierre) e personaggi reali (il protagonista si pensa che potrebbe essere ispirato a Pierre-Suzanne Lucas de La Championnière, 1769-1828, uno dei luogotenenti di Charette de La Contrie)  e per aver trattato un tema vergognosissimo per la Francia repubblicana, ideologicamente parlando rimasta oggi come all’epoca dell’autore, il quale non nascose il suo appoggio ai legittimisti – per l’altare e per il trono –  la sua narrazione, pubblicata a puntate su una rivista del 1864, venne censurata e repressa.

Scrive Gianandrea de Antonellis nella prefazione al libro pubblicato da Solfanelli:

«Verne affronta nel suo romanzo gli orrori della guerra di sterminio, sottolinendo il ruolo positivo della nobiltà bretone, non lasciatasi attrarre (e svuotare di significato) alla corte di Versailles, ma capace di eseguire nel migliore dei modi il proprio compito di amministratrice di feudi».

Probabilmente il testo doveva aprire una serie di racconti controrivoluzionari, che mai vennero più realizzati, la prova è il fatto che Il Conte di Chanteleine venne pubblicato in volume soltanto cento anni dopo nella patria di Verne, mentre in Italia fu tradotto e il libro uscì in sei edizioni: dal 1876 al 1894. Poi il vuoto, fino ad ora.

Ed ecco la verità storica esposta da un grandissimo scrittore, che non conosce l’invecchiamento narrativo, dove non sussiste ideologia, ma solo il racconto dei fatti attraverso i suoi personaggi. Un affresco che rende presente una tragedia, di cui non esiste a tutt’oggi un mea culpa: «I generali repubblicani molestavano i fuggiaschi, decimandoli o disperdendoli; i feriti, i vecchi, le donne ritardavano la marcia al funebre convoglio; i bambini, nati il giorno innanzi, erano esposti nudi a tutti i rigori della stagione; le madri non avevano di che coprirli; la fame e il freddo aggiungevano le loro torture a tutti questi patimenti; i bestiami che fuggivano per la medesima strada coprivano con i loro muggiti il fragore della tempesta e spesso, colti dal terrore, si gettavano a testa bassa attraverso i gruppi e facevano con le corna sanguinosi squarci nella folla» (pp. 19-20).

Non c’era tempo di discettare e farneticare se le donne erano alla pari degli uomini oppure no: era un dato di fatto che ognuno compiva il proprio dovere per difendere, nell’integrità civile, religiosa e morale di ciò che si era ricevuto nell’Europa cristiana, la Fede e la monarchia e con esse i propri figli e le generazioni a venire. Il Sacro Cuore di Gesù dominava i cuori degli abitanti della Vandea, sia nella vita privata che nella vita pubblica.

 

L’attuale stemma del dipartimento della Vandea ha il doppio cuore, mentre i castelli nella bordura provengono dallo stemma dell’antica provincia del Poitou, mentre i gigli sono simboli del regno di Francia; inoltre presenta una corona sormontata da una croce che simboleggia la regalità di Cristo. Il simbolo dell’esercito vandeano consisteva in un cuore sormontato da una croce rossa su campo bianco a simboleggiare il Sacro Cuore di Gesù e di Maria a cui i vandeani erano particolarmente devoti grazie alla predicazione di san Louis-Marie Grignion de Montfort (1673– 1716). Lo stemma della Vandea è stato adottato nel 1944. La bandiera vandeana, invece, è rossa e bianca (colori in verticale) con al centro lo stemma stilizzato e privato della bordura.

 

Stemma di un militante realista della Vandea, che testimonia la fede in Dio e nel re. Pittura su stoffa, 1793 (Parigi, Archive Tallandier)

Così Verne descrive la fuga di un’immensa folla verso Guérande, nel dipartimento della Loira Atlantica: «le dignità, le classi, tutto si confondeva: un gran numero di giovani donne delle più nobili famiglie della Vandea, dell’Anjou, del Poitou, della Bretagna, quelle che avevano seguito i loro fratelli, i padri, i mariti durante la grande guerra, condividevano le sofferenze delle più umili contadine. Talune di quelle valorose donne, di un coraggio a tutta prova, proteggevano anzi i fianchi della colonna. Spesse una di esse esclamava: “Al fuoco! Vandeani!”. Allora, alla maniera dei Bianchi, esse si disperdevano in mezzo alla macchia e tiravano schioppettate contro i soldati repubblicani».

In queste autentiche e tremanti parole del romanziere, che nutre evidenti simpatie per gli insorgenti  monarchici e cattolici, non possiamo non ricordare la straordinaria vandeana Juliette Colbert de Maulevrier (1786-1864, nell’immagine, a sinistra, olio su tela di Luigi Bernero, 1810), che sopravviverà al genocidio insieme al padre, mentre alcuni parenti saranno ghigliottinati a Parigi, così come il guardiacaccia della famiglia Colbert, Jean Nicolas Stofflet (1753-1796), citato nella prima pagina del romanzo (nell’immagine, a destra, olio su tela di Thomas Drake, XIX secolo). Intelligente e buon militare, nel marzo del 1793 prese le armi, partecipando, con grande audacia, a molte battaglie a fianco dei combattenti. Saumur, Nantes, Cholet, Laval, Entrammes, Granville… prese parte attiva ai trionfi e alle sventure dell’esercito vandeano. Venne nominato general-maggiore dell’esercito monarchico e nel 1794 successe a La Rochejacquelein come generale in capo. Stabilì il suo quartiere generale nella foresta di Vezins. Nel dicembre 1795, per conto del conte di Provenza, il futuro Luigi XVIII di Francia, ricevette il grado di maresciallo di campo. Ma i repubblicani lo catturarono e lo condannarono a morte, fucilandolo ad Angers il 25 febbraio 1796.

Contadini, artigiani, sacerdoti, nobili, militari… martirizzati per la Fede cattolica e per non aver ceduto alle nefandezze della Rivoluzione francese.

Oggi il castello di Maulevreir è un elegante Hotel e nelle sue magnifiche camere, nei suoi corridoi e sulle pareti delle incantevoli scale sono effigiati anche coloro che qui hanno vissuto, che da qui sono fuggiti o sono stati catturati, imprigionati e talvolta uccisi. Fra i ritratti quelli di Juliette, divenuta poi marchesa di Barolo, oggi venerabile insieme al suo sposo, Carlo Tancredi (1782-1838) e il generale Jean Nicolas Stofflet.

Grazie all’editore Solfanelli, il racconto controrivoluzionario di Jules Verne, omaggio ai 300 mila morti, che si occupò della Vandea prima di Reynald Secher, può essere nuovamente letto in Europa.

 

 

La battaglia di Le Mans

 

Château de Colbert, Maulévrier, dipartimento del Maine e Loira  (Francia)

 

[1] Si possono conoscere i profili biografici su santiebeati.it dei seguenti generali vandeani:

Jacques Cathelineau qui;

di  François-Athanase Charette de La Contrie qui

Charles Melchior Artus de Bonchamps qui

Maurice-Louis-Joseph Gigot d’Elbée qui

Louis Marie de Lescure qui

Henri du Vergier de La Rochejaquelein qui

Jean Nicolas Stofflet qui

Antoine-Philippe de La Trémoille de Talmont qui

 

 

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