La spregiudicatezza rinascimentale di Donald Trump

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Il Presidente americano Donald Trump ha annunciato (20 dicembre 2018) il ritiro del contingente Usa di circa 2000 uomini presente in Siria e del dimezzamento di quello in Afghanistan (21 dicembre 2018), attualmente di circa 14.000 unità; lo stesso 20 dicembre u.s. Trump annuncia anche le prossime dimissioni del Ministro della Difesa, generale Jim Mattis, a far data da un giorno imprecisato del mese di febbraio 2019. È opinione comune che tali dimissioni siano strettamente collegate con il ritiro dalla Siria, quando non ne siano la diretta conseguenza. Le divergenze di opinione tra l’inquilino della Casa Bianca e del capo del Pentagono si erano manifestate su pressoché tutti gli scenari della politica estera statunitense, con prevalenza ora di una linea, ora dell’altra.

Più che divergenze specifiche, si è sempre trattato di una diversa filosofia di fondo della politica estera: il Ministro permane ancorato alla visione geo-strategica che ha caratterizzato la guerra fredda, mentre il Presidente corregge questa lettura con scene di una spregiudicatezza degna del Rinascimento italiano, anche se condita con un pizzico di economicismo.

Jim Mattis, da buon generale e da buon capo del Pentagono, vede la politica estera come conseguenza delle alleanze militari, cui, in linea di principio, debbono essere sacrificati gli eventuali vantaggi tattici, tanto geo-politici quanto economici, che una maggiore libertà d’azione potrebbe procurare nel breve periodo. L’ottica di fondo è quella della contrapposizione tra grandi blocchi, nella quale la compattezza, in un’ottica strategica, fa premio su qualsiasi vantaggio tattico.

Donald Trump, invece, vede lo scenario mondiale come unipolare e multipolare al tempo stesso; è una situazione in cui, tendenzialmente, non ci sono blocchi ideologici contrapposti, caratteristici, invece, degli scenari bipolari, ma vi è un’unica potenza egemone (parte unipolare del quadro), che, nell’attuale contingenza storica, sono gli Stati Uniti, potenza che, però, non è in grado di affermare la propria egemonia unicamente con i propri mezzi ed ovunque (parte multipolare del quadro). In questa situazione, le alleanze tendono a formarsi hic et nunc, per scopi precisi, anche solo in vista di una momentanea convergenza di interessi o di un puntuale obiettivo comune; i vantaggi tattici, acquisiti anche con una spregiudicata «giostra di alleanze», possono rafforzare tanto il contendente da farlo divenire appetibile come alleato, anche se solo momentaneo, per coloro del cui appoggio si avrà bisogno in un altro momento e/o su un altro scacchiere.

Fin qui il parallelo con il Cinquecento italiano può sembrare quasi perfetto; la differenza è sull’interpretazione operativa da dare al principio di Carl Philipp Gottlieb von Clausewitz (1780-1831), secondo il quale la «guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi». Questo principio parte dall’idea aristotelica, secondo la quale la politica, intesa, ovviamente, come parte dell’etica, è la regina delle arti, perché permette tutte le altre.

Nel Rinascimento il concetto era ancora chiaro e non era ancora stato intaccato dal principio dell’autonomia delle scienze; le Signorie cinquecentesche si limitavano ad applicare questo principio ai rapporti tra l’etica e la politica, senza estenderlo ai rapporti tra questa e le altre scienze umane. Il ruolo della guerra, però, in quel contesto storico, diveniva quasi totalizzante e gli altri mezzi di potenza apparivano, al suo confronto, assolutamente sbiaditi e di difficile impiego, se non come ausiliari dello strumento bellico.

Nella visione di Trump, invece, la competizione fra gli Stati è vista in modo più complesso e, in essa, lo strumento militare diviene uno tra molti, anche se tra quelli più importanti. Anche qui, ovviamente, lo scontro con il generale è, almeno culturalmente, inevitabile.

Il ritiro dalla Siria è la prima vera svolta in senso “trumpiano” dell’Amministrazione in politica estera. Nella visione dell’attuale inquilino della Casa Bianca, l’avversario strategico, a livello globale, degli Stati Uniti è la Cina e non la Russia, come, invece, è nella lettura del Partito democratico, che ancora segue pedissequamente le dottrine “strategiche” di Zbigniew Brzezinski (1928-2017). Questo non significa che non ci possono essere scontri puntuali con Mosca, su scacchieri definiti, ma che la maggior parte delle energie statunitensi debbono essere tenute a disposizione dello scontro con Pechino.

Questa strategia non è mai stata applicata, soprattutto per le pressioni giunte tramite il russiagate, vale a dire lo scandalo sollevato dall’inchiesta sulle presunte interferenze russe nella campagna elettorale nelle elezioni presidenziali del 2016. Di fatto, Trump ha condotto, soprattutto in Medio Oriente, la stessa politica delle precedenti Amministrazioni democratiche, filo-sunnita, anti-sciita ed anti-russa, addirittura esacerbandone, se possibile, i toni; si pensi, a titolo di esempio, all’appoggio dato all’Arabia Saudita ed ai suoi alleati, in Yemen e, appunto, in Siria.

Sul fronte del Pacifico, bisogna riconoscerlo, ha intrapreso, almeno nei mesi iniziali dell’Amministrazione, un certo confronto con la Cina, anche se per interposta persona, vale a dire attraverso la Corea del Nord. Certo si è trattato di un cambio di passo rispetto alle politiche rigidamente filo-cinesi delle Amministrazioni democratiche, ma tutto si è mantenuto rigidamente nel campo delle politiche reversibili, tanto è vero che, anche sul piano economico e commerciale, ai dazi ed alle sanzioni sono seguiti i negoziati e gli accordi commerciali, sia pure con la prospettiva di una possibile ripresa della guerra commerciale.

Il ritiro dalla Siria, invece, assume un significato di rivoluzione copernicana paragonabile a quello dell’invasione dell’Afghanistan, voluta da George W. Bush, nell’ottobre 2001. Anche qui, si partiva da una situazione nella quale gli Usa appoggiarono il fondamentalismo sunnita e la Russia vi si opponeva: il regime dei Talebani era stato creato a tavolino dalla C.I.A. di Bill Clinton con l’appoggio “teologico” e finanziario dell’Arabia Saudita ed installato al potere a Kabul, scacciandovi il governo di coalizione tradizionale, che la resistenza anti-sovietica aveva creato, dopo la cacciata dell’Armata Rossa. Dopo gli attentati dell’11 settembre, Bush figlio rovesciò completamente la collocazione strategica degli Stati Uniti, che intervennero militarmente al fianco di quella che allora era definita come l’«Alleanza del Nord», vale a dire ciò che rimaneva del Governo delle forze che avevano cacciato i sovietici e che, all’epoca, erano appoggiate da Russia ed Iran. Si era passati, con un Presidente repubblicano, dall’alleanza con i sunniti e l’Arabia Saudita a quella con gli sciiti, l’Iran e la Russia.

Con il ritiro dei soldati dalla Siria, si ricrea, sempre nell’eventualità che tale politica venga perseguita fino in fondo, una situazione analoga. All’interno dell’operazione delle cosiddette «Primavere arabe», vale a dire del movimento insurrezionale dell’integralismo sunnita contro i regimi arabi “laici”, fomentato e finanziato dagli Stati Uniti, Barack Hussein Obama fomenta la rivolta in Siria e, tra gli altri (bisognerebbe dire più degli altri), sostiene il Fronte al-Nusra, vale a dire la branca siriana di Al-Qāʿida, privilegiando, al suo interno, la corrente più integralista, che, una volta staccatasi, avrebbe dato luogo prima all’Isis e, successivamente, al Califfato. Il Califfato univa insieme le due anime del fondamentalismo sunnita (qui e qui), godendo, di fatto, dell’appoggio tanto dell’Arabia Saudita quanto della Turchia. Avendo lo Stato islamico attaccato il Governo filo-americano dell’Iraq, la posizione di Obama dovette mutare e decise, quindi, di prendere le distanze dal Califfato e di essere, contemporaneamente, ostile a questo ed al suo principale nemico in Siria, vale a dire il regime del Presidente Bashar Hafiz al-Asad, appoggiando la cosiddetta «resistenza moderata», che, però, era capeggiata dal fronte al-Nusra.

Questa era, più o meno, la situazione in Siria quando Trump si è insediato alla Presidenza. La sua politica nell’area, come dicevamo, non si è distanziata di molto da quella del suo predecessore, salvo un ulteriore inasprimento dei toni anti-iraniani e, conseguentemente, anti-russi. Sul terreno, però, la situazione si evolve, in maniera sempre più rapida, a favore del Presidente Assad, che, con l’appoggio militare e diplomatico russo, riconquista il controllo di quasi tutto il Paese, garantendosi anche dal tentativo di annessione, da parte della Turchia, di alcune regioni settentrionali.

In questa situazione, l’unico reale freno alla riconquista manu militari da parte di Assad delle zone che ancora si sottraggono al suo controllo è rappresentato dalla presenza militare statunitense. Il ritiro delle truppe statunitensi e, soprattutto, la sua motivazione rappresentano il totale ribaltamento della politica di Obama, almeno in Siria. Trump ha affermato che, essendo stato definitivamente sconfitto lo Stato islamico in Siria, la presenza dei militari americani in quel Paese non è più necessaria. Questo significa che gli Usa non intendono più svolgere alcuna attività ostile al regime di Assad, a cui, di fatto, appaltano anche la difesa dei curdi di Siria, che, dopo una iniziale adesione alla rivolta, hanno dichiarato la loro fedeltà al Presidente, soprattutto per il timore di un’aggressione turca.

Non possiamo ancora dire se questo sia l’inizio di una più stretta collaborazione con Mosca, in chiave anti-cinese, soprattutto tenendo conto del fatto che lo spionaggio di Pechino ai danni degli Stati Uniti e dei maggiori Paesi occidentali pare certamente peggiore e più dannoso, soprattutto a lungo termine, di quello russo. Intanto, Vladimir Putin ha pubblicamente ringraziato.

 

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